09/07/19

Il capitalismo non è (più) sostenibile



Questione ambientale, migrazioni, disuguaglianze, intolleranza: il sistema economico e produttivo che abbiamo costruito è denominatore comune a tutti i più grandi problemi del nostro tempo. E noi, come i pesci del famoso racconto di David Foster Wallace, ne siamo così assuefatti da non riuscire a rendercene conto.

La cronaca politica degli ultimi mesi ha visto la giovane Greta Thunberg ergersi a leader mondiale nel dibattito sulla tutela dell’ambiente. Dibattito che grazie al carisma della ragazza, ai continui allarmi delle organizzazioni internazionali sui rischi dell’inquinamento e agli studi che provano la responsabilità dell’uomo nel processo di surriscaldamento globale è tornato in auge riuscendo a far guadagnare molti voti alle forze politiche ambientaliste nelle elezioni Europee dello scorso maggio. Anche le forze tradizionali hanno iniziato ad adattarsi a questa nuova tendenza, senza tuttavia fornire soluzioni radicali. Infatti, uno dei grandi limiti dell’azione politica in tema di tutela ambientale fino ad adesso è stato quello di pensare che attraverso gli incentivi pubblici le aziende si convincano ad investire con più decisione nell’innovazione “green”. Ciò che non si considera è che questo particolare processo innovativo debba essere gestito dal pubblico sia per ragioni etiche (l’ambiente è un bene pubblico, e pubblica deve essere la sua tutela) che per ragioni economiche: gli investimenti in ricerca e sviluppo in tema ambientale hanno costi altissimi e ritorni bassi e poco certi, mentre le aziende puntano massimizzare il profitto nel breve termine rendendo il processo di innovazione lento ed inefficace.

In un grande intreccio di ragioni politiche, economiche ed ambientali, centinaia di milioni di persone sono in movimento dal sud verso il nord del mondo. Lo sfruttamento dei loro territori ad opera delle grandi multinazionali d’occidente in accordo con i vari gruppi militari e politici locali sono causa, quando non di conflitti armati perenni, di povertà, schiavitù e malattie. Le siccità e le piogge anomale che stanno colpendo quelle parti del pianeta a causa del cambiamento climatico peggiorano un quadro già di per sé devastante. In questo contesto, parlare, come fanno molti politici, di “aiutarli a casa loro” implicherebbe vietare alle nostre aziende tecnologiche di rifornirsi a prezzi da discount delle materie prime con le quali costruiscono il loro vantaggio competitivo, o impedire all’industria bellica di commerciare sotto l’egida delle istituzioni nazionali con i paesi “a rischio”. Contemporaneamente, sarebbe necessario incrementare la spesa pubblica in cooperazione internazionale, che invece risulta essere in caduta libera. Siamo disposti a invertire la rotta in maniera così radicale? La risposta è chiaramente no.

Nella parte più fortunata del mondo, dieci anni di crisi economica e trent’anni di tagli bipartisan alle politiche di welfare stanno mettendo a dura prova la coesione sociale in tutto il Vecchio Continente. Un quarantennio di bombardamento retorico liberale ci ha convinti che la priorità della politica debba essere quella di abbassare le tasse, perché pagare meno tasse vuol dire avere più soldi in tasca. Ciò che non ci è stato spiegato (e che, nonostante l’evidente paradosso, continua a non essere spiegato a sufficienza) è che abbassare le tasse vuol dire avere meno denari per finanziare i servizi, che quindi dovranno essere erogati dai privati con tariffe insostenibili per la maggior parte della popolazione. Inoltre, in un mondo in cui viene garantita la libera circolazione dei capitali, la competizione tra le aziende si gioca, oltre che sul livello di tassazione, sul costo del lavoro. E’ così che è stato giustificato l’attacco scientifico ai diritti dei lavoratori negli ultimi quarant’anni. La precarizzazione del lavoro, soprattutto per giovani e donne, riduce i costi delle aziende ma aumenta l’instabilità di chi pur lavorando non ha i soldi per poter vivere decentemente. Il calo delle nascite, l’aumento delle psicopatologie legate all'insicurezza lavorativa e l’etnicizzazione delle rivendicazioni sociali sono solo alcuni dei molti effetti perversi di questo sistema.

Settant’anni fa, Karl Polanyi, economista e sociologo ungherese, nel suo libro “La Grande Trasformazione – Le origini economiche e politiche della nostra epoca” ha magistralmente spiegato che le tensioni create dal sistema economico liberale possono avere effetti politici devastanti. Secondo lui, al movimento di liberalizzazione e “laissez-faire” occorso dopo la seconda rivoluzione industriale corrispondeva un contro-movimento, una richiesta di protezione dalle distorsioni create dal primo. Era così che lui spiegava la nascita dei fascismi in Europa. Guardare al presente attraverso la lente di Polanyi è un esercizio utile ad interpretare molti dei fenomeni ai quali stiamo assistendo, a tracciarne analogie e differenze rispetto al passato e, in definitiva, ad evitare di commettere ciclicamente gli stessi errori.

Alla luce della teoria polanyiana, dei problemi ambientali e dei flussi migratori, della precarizzazione della vita privata e della distruzione della sfera pubblica, ciò che appare chiaro è che il capitalismo non sia più un sistema sostenibile. O meglio: è chiaro che il capitalismo non sia mai stato un sistema sostenibile. E’ stato un sistema tollerato e tollerabile, certo, che ha creato tantissima ricchezza, ma che l’ha tuttavia polarizzata nelle mani di pochi e a costi collettivi altissimi. Per questi motivi sta progressivamente perdendo la propria funzione storica, anche se per adesso è difficile scorgere un’alternativa sistemica migliore.
La reazione a questo stato delle cose non può e non deve avere, di nuovo, nel fascismo il più naturale degli sbocchi politici. E’ bene ricordare che peculiarità del fascismo, sia storico che odierno, è la retorica con il popolo e per il popolo contro il nemico più facile da abbattere (i migranti, le ONG, gli avversari politici, le donne), mentre l’azione politica è a vantaggio unico del grande capitale e a scapito dei lavoratori (in cui la repressione sindacale e moderazione salariale del fascismo storico e la proposta di flat-tax di quello moderno sono i casi più esplicativi). Dunque, per quanto forze dichiaratamente anti-sistema, nei fatti né il fascismo storico né quello moderno si sono mai posti in antitesi rispetto al sistema economico egemone.

Evitare che il capitalismo e l’architettura politica che lo sostiene e lo legittima vengano superati dialetticamente attraverso un conflitto sanguinoso e devastante è oggi il nostro più grande imperativo morale. Per farlo è necessario ripartire dalla riapproprazione degli spazi collettivi, dal mutualismo, dal localismo e dalle buone prassi. E’ necessario creare una narrazione condivisa dei benefici dello stare tutti assieme pacificamente, ed è necessario che questa narrazione, penetrando in tutti gli strati della società attraverso esempi pratici e messaggi semplici da recepire, diventi senso comune.
Ci vorrà tempo prima che questa notte della ragione passi. E ci vorrà uno sforzo collettivo sovrumano per resistere a questo rigurgito reazionario che ha ormai sedotto molti di noi. Ma rendersi conto, come i pesci del racconto di Foster Wallace, che "questa è l'acqua", è già un buon punto dal quale partire.

Federico Filetti


23/06/19

Baudelaire - Spleen

LXXVI
Ho più ricordi che se avessi mille anni.
Un grosso mobile a cassetti ingombro di bilanci, di versi, di biglietti amorosi, di processi, di romanze, con pesanti ciocche di capelli involte nelle quitanze, nasconde meno segreti del mio triste cervello. E' una piramide, un immenso sepolcro che contiene più morti che la fossa comune.
- Io sono un cimitero aborrito da la luna, dove come rimorsi si trascinano lunghi vermi che s'avventano sempre su' miei morti più cari.
Io sono un vecchio gabinetto pieno di rose appassite, dove giace tutto un guazzabuglio di mode disusate, dove i pastelli malinconici e le pallide figure di Boucher, soli respirano l'odore d'una fiala sturata.
Nulla uguaglia in lunghezzza le tarde giornate, quando sotto le pesanti falde de le nevose annate la Noia, frutto de la triste incuriosità, assume le proporzioni de l'immortalità.
- Ormai tu non sei più o materia vivente! che un granito circondato da un vago terrore, assopito nel fondo d'un Sahara nebbioso! una vecchia sfinge ignorata dal mondo spensierato, dimenticata su le carte il cui umore selvaggio non canta che ai raggi del sole che tramonta.

LLXXVII
Io sono come il re d'un paese piovoso, ricco ma impotente, giovane e pur molto vecchio, che, disprezzando li inchini ossequiosi de' precettori si annoia co' suoi cani come un qualunque altro animale.
Nulla lo può rallegrare, nè falcone nè selvaggina, e nemmeno il suo popolo morente davanti al balcone.
La grottesca ballata del buffone favorito non distrare più la fronte di qul crudele malato; il suo letto di fiordalisi si trasforma in una tomba, e le dame del seguito, per le quali ogni principe è bello, non sanno più trovare impudiche acconciature per strappare un sorriso a quel giovane scheletro.
Lo scienziato che gli produce l'oro non ha mai potuto sdradicare dal suo essere l'elemento corrotto, ed in quei bagni di sangue che ci vengono dai Romani e di cui i potenti si ricordano nei loro più tardi giorni, non ha saputo riscaldare quel cadavere idebetito nel quale invece di sangue scorre l'acqua verde del Lete.

28/02/19

Perché Volt non riesce a convincermi



Le elezioni europee del maggio 2019 sono alle porte e con ogni probabilità segneranno uno sconvolgimento dell’assetto politico del Vecchio Continente. I due partiti tradizionali, il PPE e il PSE, sono in calo di consensi ormai da anni in tutta Europa, così come le formazioni nazionali che li compongono. Le politiche liberali di cui entrambi si sono fatti portatori si sono scontrate con gli effetti di lungo periodo della crisi, gonfiando le vele ai populismi. E’ proprio sui risultati dei partiti populisti che si giocherà la sfida fondamentale per il futuro dell’Unione. Se la destra populista riuscirà a raggiungere percentuali paragonabili a quelle nazionali, sposteranno verso destra l’asse del PPE, rischiando di far implodere il progetto di unità europea in virtù della loro spinta disgregante. Allo stesso tempo, il PSE sembra voler proseguire nella sua strategia centrista, cancellando a monte qualsiasi tentativo di dialogo con le formazioni della sinistra radicale (come succede già adesso in Italia), e continuando a perdere il consenso delle classi popolari.
In questo scenario, alcune nuove formazioni politiche sostenute da larga parte dell’opinione pubblica di area progressista spingono affinché l’azione politica europea possa diventare più uniforme e centralizzata rispetto a quanto non lo sia adesso.
Incuriosito dall’attenzione che i media hanno rivolto a questo neonato movimento, colpito dalla sua sorprendente capacità organizzativa, dalla efficace ars oratoria dei propri leader e dall’affinità generazionale che mi lega ai suoi creatori ho iniziato a documentarmi. Ho letto la carta programmatica (che si chiama Dichiarazione di Amsterdam), ho ascoltato le interviste, ho letto articoli e ad ogni tassello che aggiungevo, venivo investito da una serie di dubbi che mi sembrava minassero la credibilità del progetto politico. Dubbi che riguardano innanzi tutto la piattaforma programmatica, ovvero gli obiettivi politici che si pone il movimento e di come questi obiettivi debbano essere tradotti in azioni, e poi la retorica attraverso cui questo insieme di intenti e di proposte viene comunicato al potenziale elettore.

E’ un movimento che si pone in antitesi rispetto ai populismi ma si dichiara né di destra né di sinistra, esattamente come molti dei partiti populisti in giro per l’Europa. Come i partiti populisti, rivendicano, a testimonianza della loro purezza, l’inesperienza politica e non si identificano nella dicotomia storica tra destra e sinistra. Una retorica, questa, che è nata in Italia con il Movimento 5 Stelle e che è stata mutuata da En Marche! nella campagna elettorale che ha portato Emmanuel Marcon all’Eliseo. Una contraddizione che, come abbiamo visto, non può risolversi in campagna elettorale e che si risolverà nel momento in cui gli eletti dovranno prendere delle decisioni politiche. La storia recente ci insegna molto a riguardo. In Italia, il Movimento 5 Stelle dall’alto della sua purezza e della sua retorica post-ideologica è finita ad attuare politiche di destra sociale (ossia quelle volte a proteggere i lavoratori, possibilmente italiani, bianchi e uomini, a scapito delle minoranze), mentre, in Francia, Macron implementa politiche liberiste e taglia indiscriminatamente lo stato sociale, costringendo i Gilet Gialli ad occupare le strade di Parigi e della Francia per più di tre mesi. A vantaggio unico di Lega e Front National: la destra vera, quella nostalgica e reazionaria.
Alla retorica populista, Volt affianca una visione contraddittoria del futuro dell’Europa. Insieme ad una (giusta, a mio avviso) attenzione ai diritti civili, alla sostenibilità ambientale, all’attenzione verso le minoranze ci sono forti ambiguità legate ai modi in cui questi obiettivi debbano essere perseguiti: in altre parole, il ruolo che lo Stato deve avere nel gestire il ciclo economico. Se da un lato leggiamo che “lo Stato deve farsi portatore di un sistema di solidarietà per i soggetti più vulnerabili”, dall’altro leggiamo che “il suo intervento deve essere il più piccolo e più veloce possibile” e che “lo Stato non può e non deve pianificare o prevedere l’innovazione”. Compito che è delegato al mercato, che, in quanto “libero e aperto, crea le più grandi possibilità di arricchimento per tutti”.
L’assenza pressoché totale di critica al paradigma liberale diventa lampante quando al congresso nazionale di Volt Italia viene invitato Carlo Calenda, un politico che non ha vergogna nel dichiarare che il liberismo è di sinistra, o quando uno dei leader del movimento dichiara che “il liberalismo forse si è un po’ incagliato su una visione economicistica e deterministica degli individui”. Forse. Un po’.
La stessa visione economicistica e deterministica che lo ha portato a dichiarare, due righe più giù, che la soluzione è “il taglio immediato e significativo del cuneo fiscale per dare ossigeno a tutti quei milioni di giovani che ad oggi arrivano a fine mese solo grazie agli aiuti di nonni e genitori”. Fare un’esegesi dell’ideologia dominante per criticare l’ideologia dominante. Un capolavoro retorico.

E’ comunque doveroso sottolineare che molti dei punti programmatici di Volt non sono solo condivisibili, ma anzi di necessaria attuazione. Ho trovato molto interessante, ad esempio, la proposta di espandere il mandato della Banca Centrale Europea non solo al controllo dell’inflazione ma anche a quello del livello di occupazione, come succede anche con la FED negli Stati Uniti.  Così come sono condivisibili le proposte di centralizzazione a livello europeo di parte della spesa pubblica, dell’unione bancaria, dell’istituzione di una tassa europea sulle imprese e del ministero delle finanze che rappresenti tutta l’Unione. In generale, mi sembra che molti dei punti programmatici volti a federare gli Stati guardino nella giusta direzione.
Tuttavia, il programma presenta molte profonde mancanze e altrettante ambiguità di difficile risoluzione.
Ritengo scandaloso che nella piattaforma programmatica e nella sua appendice non vengano neanche citate le parole “debito pubblico” o “debito pubblico europeo”: non si fa riferimento ai vincoli di Maastricht su debito e pil, i cui effetti perversi sono responsabili della macelleria sociale nella quale ci troviamo oggi, e non si accenna neanche a proposte su un “debito pubblico europeo”, uno dei pochi meccanismi che possa realmente aumentare la solidarietà tra gli Stati Membri. Sarebbe grave se si trattasse di una semplice dimenticanza, visto che stiamo parlando di una forza politica che sta comunque chiedendo il voto a centinaia di milioni di persone, ma sarebbe ancor più grave se questa mancanza nascondesse la paura di prendere una posizione chiara a riguardo.
Un’altra grave mancanza programmatica è quella di un salario minimo europeo, che si porrebbe come risposta alle pressioni a ribasso sui salari date dalla presenza di una nutrita manodopera di riserva: l’istituzione di un salario minimo ridurrebbe i fenomeni di dumping nella parte inferiore della piramide sociale, sia per i cittadini europei che per le minoranze etniche disposte ad accettare stipendi da fame pur di lavorare.
Quanto alle ambiguità programmatiche, ciò che per Volt sembra non essere chiaro è che competitività e protezione sociale siano due fattori mutualmente esclusivi.
Non è chiaro come le proposte di aumento della protezione sociale dei lavoratori atipici (tra i quali, ad esempio, i riders) possano essere conciliate con il fatto che il vantaggio competitivo di aziende come Foodora o Deliveroo sia basato sullo sfruttamento della manodopera in cambio di zero garanzie e stipendi da fame. Aumentare la protezione sociale di queste categorie implicherebbe un maggior costo del lavoro per queste aziende, che come conseguenza della libera circolazione dei capitali scapperebbero subito verso altri lidi.
Così come non è chiaro come l’appoggio incondizionato al libero mercato possa conciliarsi con le proposte di aumento delle protezioni per gli agricoltori locali, che dai trattati di libero scambio firmati in Europa sono stati danneggiati.

Volt, così come En Marche! (al quale Volt mi sembra si ispiri), mirano a guadagnare voti smarcandosi dalla dicotomia destra/sinistra e ponendosi in alternativa ai populismi.
Tuttavia, ciò che appare chiaro è che le contraddizioni insite nella retorica e nel programma attraverso cui Volt si sta presentando all’elettorato europeo risentono da un lato dell’ormai quarantennale egemonia culturale del liberismo, dall’altro delle spinte protezionistiche che i populismi sostengono da quando il paradigma liberale ha iniziato a mostrare le sue falle. Così facendo, questo movimento ha assimilato, introiettandoli, i principali difetti delle due visioni.
Inoltre, i presupposti teorici su cui Volt si fonda mi sembrano deboli: essi semplificano la realtà fino ad invertire i rapporti di causa ed effetto. Nella loro analisi, infatti, Brexit e i populismi vengono presi solo come variabile indipendente del sistema, come la causa che rischia di influenzare un processo. Invece, i populismi sono il risultato dell’interazione tra il sistema economico egemone, quello liberista che è intrinsecamente portato a polarizzare la ricchezza, e il sistema politico, quello della democrazia liberale, in cui i meccanismi di rappresentanza si sono rivelati incapaci di gestire le tensioni sociali create dal sistema economico.
Il tentativo che Volt sta compiendo di dare un volto umano al capitalismo e al libero mercato non è innovativo: furono Tony Blair e Bill Clinton i primi a provarci più di vent’anni fa, seguiti a ruota da moltissimi emuli in tutto il mondo Occidentale, e dalle loro politiche ne è emersa la crisi più grande della storia del capitalismo. Ignorare la necessità di uno Stato (o di un insieme di Stati) che non solo regoli ma che intervenga massicciamente per garantire uguaglianza e solidarietà, ignorare che il trade-off che esiste tra welfare universale e libertà di movimento dei capitali debba risolversi necessariamente in favore del primo, ignorare che il conflitto tra capitale e lavoro è oggi forte come e forse più di quanto non lo sia stato durante tutto il ‘900, vuol dire porsi in una posizione antistorica. Vuol dire o non avere idea del qui e dell’ora, oppure vuol dire prendere ufficialmente atto di rappresentare una piccola e privilegiata parte della popolazione europea.
Verrà un momento in cui questi futuri giovani deputati europei verranno chiamati a decidere se stare dalla parte di chi con la globalizzazione ci ha guadagnato, o se stare dalla parte di chi ha perso. A quel punto vedremo di che pasta sono fatti.

Federico Filetti

12/01/19

Slavoj Žižek brilliantly defines ideology

«A friend visited Niels Bohr in his house in the countryside and noticed an horseshoe above the entrance door. Everyone knows that in Europe we believe that it keeps the house safe from evil spirits.
The friend was shocked and told him: “Niels, you’re a scientist! Do you really believe in these kinds of superstitions?”.
Bohr replied: “No, of course not. I’m not crazy”.
“And why is it there, then?”, the friend asked.
“Because I was told that it works even if we don’t believe in it”».
© Federico Filetti
Maira Gall