Questione ambientale, migrazioni, disuguaglianze, intolleranza: il sistema economico e produttivo che abbiamo costruito è denominatore comune a tutti i più grandi problemi del nostro tempo. E noi, come i pesci del famoso racconto di David Foster Wallace, ne siamo così assuefatti da non riuscire a rendercene conto.
La cronaca politica degli ultimi mesi ha visto la giovane Greta Thunberg ergersi a leader mondiale nel dibattito sulla tutela dell’ambiente. Dibattito che grazie al carisma della ragazza, ai continui allarmi delle organizzazioni internazionali sui rischi dell’inquinamento e agli studi che provano la responsabilità dell’uomo nel processo di surriscaldamento globale è tornato in auge riuscendo a far guadagnare molti voti alle forze politiche ambientaliste nelle elezioni Europee dello scorso maggio. Anche le forze tradizionali hanno iniziato ad adattarsi a questa nuova tendenza, senza tuttavia fornire soluzioni radicali. Infatti, uno dei grandi limiti dell’azione politica in tema di tutela ambientale fino ad adesso è stato quello di pensare che attraverso gli incentivi pubblici le aziende si convincano ad investire con più decisione nell’innovazione “green”. Ciò che non si considera è che questo particolare processo innovativo debba essere gestito dal pubblico sia per ragioni etiche (l’ambiente è un bene pubblico, e pubblica deve essere la sua tutela) che per ragioni economiche: gli investimenti in ricerca e sviluppo in tema ambientale hanno costi altissimi e ritorni bassi e poco certi, mentre le aziende puntano massimizzare il profitto nel breve termine rendendo il processo di innovazione lento ed inefficace.
In un grande intreccio di ragioni politiche, economiche ed ambientali, centinaia di milioni di persone sono in movimento dal sud verso il nord del mondo. Lo sfruttamento dei loro territori ad opera delle grandi multinazionali d’occidente in accordo con i vari gruppi militari e politici locali sono causa, quando non di conflitti armati perenni, di povertà, schiavitù e malattie. Le siccità e le piogge anomale che stanno colpendo quelle parti del pianeta a causa del cambiamento climatico peggiorano un quadro già di per sé devastante. In questo contesto, parlare, come fanno molti politici, di “aiutarli a casa loro” implicherebbe vietare alle nostre aziende tecnologiche di rifornirsi a prezzi da discount delle materie prime con le quali costruiscono il loro vantaggio competitivo, o impedire all’industria bellica di commerciare sotto l’egida delle istituzioni nazionali con i paesi “a rischio”. Contemporaneamente, sarebbe necessario incrementare la spesa pubblica in cooperazione internazionale, che invece risulta essere in caduta libera. Siamo disposti a invertire la rotta in maniera così radicale? La risposta è chiaramente no.
Nella parte più fortunata del mondo, dieci anni di crisi economica e trent’anni di tagli bipartisan alle politiche di welfare stanno mettendo a dura prova la coesione sociale in tutto il Vecchio Continente. Un quarantennio di bombardamento retorico liberale ci ha convinti che la priorità della politica debba essere quella di abbassare le tasse, perché pagare meno tasse vuol dire avere più soldi in tasca. Ciò che non ci è stato spiegato (e che, nonostante l’evidente paradosso, continua a non essere spiegato a sufficienza) è che abbassare le tasse vuol dire avere meno denari per finanziare i servizi, che quindi dovranno essere erogati dai privati con tariffe insostenibili per la maggior parte della popolazione. Inoltre, in un mondo in cui viene garantita la libera circolazione dei capitali, la competizione tra le aziende si gioca, oltre che sul livello di tassazione, sul costo del lavoro. E’ così che è stato giustificato l’attacco scientifico ai diritti dei lavoratori negli ultimi quarant’anni. La precarizzazione del lavoro, soprattutto per giovani e donne, riduce i costi delle aziende ma aumenta l’instabilità di chi pur lavorando non ha i soldi per poter vivere decentemente. Il calo delle nascite, l’aumento delle psicopatologie legate all'insicurezza lavorativa e l’etnicizzazione delle rivendicazioni sociali sono solo alcuni dei molti effetti perversi di questo sistema.
Settant’anni fa, Karl Polanyi, economista e sociologo ungherese, nel suo libro “La Grande Trasformazione – Le origini economiche e politiche della nostra epoca” ha magistralmente spiegato che le tensioni create dal sistema economico liberale possono avere effetti politici devastanti. Secondo lui, al movimento di liberalizzazione e “laissez-faire” occorso dopo la seconda rivoluzione industriale corrispondeva un contro-movimento, una richiesta di protezione dalle distorsioni create dal primo. Era così che lui spiegava la nascita dei fascismi in Europa. Guardare al presente attraverso la lente di Polanyi è un esercizio utile ad interpretare molti dei fenomeni ai quali stiamo assistendo, a tracciarne analogie e differenze rispetto al passato e, in definitiva, ad evitare di commettere ciclicamente gli stessi errori.
Alla luce della teoria polanyiana, dei problemi ambientali e dei flussi migratori, della precarizzazione della vita privata e della distruzione della sfera pubblica, ciò che appare chiaro è che il capitalismo non sia più un sistema sostenibile. O meglio: è chiaro che il capitalismo non sia mai stato un sistema sostenibile. E’ stato un sistema tollerato e tollerabile, certo, che ha creato tantissima ricchezza, ma che l’ha tuttavia polarizzata nelle mani di pochi e a costi collettivi altissimi. Per questi motivi sta progressivamente perdendo la propria funzione storica, anche se per adesso è difficile scorgere un’alternativa sistemica migliore.
La reazione a questo stato delle cose non può e non deve avere, di nuovo, nel fascismo il più naturale degli sbocchi politici. E’ bene ricordare che peculiarità del fascismo, sia storico che odierno, è la retorica con il popolo e per il popolo contro il nemico più facile da abbattere (i migranti, le ONG, gli avversari politici, le donne), mentre l’azione politica è a vantaggio unico del grande capitale e a scapito dei lavoratori (in cui la repressione sindacale e moderazione salariale del fascismo storico e la proposta di flat-tax di quello moderno sono i casi più esplicativi). Dunque, per quanto forze dichiaratamente anti-sistema, nei fatti né il fascismo storico né quello moderno si sono mai posti in antitesi rispetto al sistema economico egemone.
Evitare che il capitalismo e l’architettura politica che lo sostiene e lo legittima vengano superati dialetticamente attraverso un conflitto sanguinoso e devastante è oggi il nostro più grande imperativo morale. Per farlo è necessario ripartire dalla riapproprazione degli spazi collettivi, dal mutualismo, dal localismo e dalle buone prassi. E’ necessario creare una narrazione condivisa dei benefici dello stare tutti assieme pacificamente, ed è necessario che questa narrazione, penetrando in tutti gli strati della società attraverso esempi pratici e messaggi semplici da recepire, diventi senso comune.
Ci vorrà tempo prima che questa notte della ragione passi. E ci vorrà uno sforzo collettivo sovrumano per resistere a questo rigurgito reazionario che ha ormai sedotto molti di noi. Ma rendersi conto, come i pesci del racconto di Foster Wallace, che "questa è l'acqua", è già un buon punto dal quale partire.
Federico Filetti
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