26/10/20

Un reddito per tutti fino alla fine della crisi sanitaria. Universalmente garantito e finanziato dalla tassazione generale attraverso imposte altamente progressive su ricchezza e rendite - ed eventualmente anche a debito. Estensione del blocco ai licenziamenti, aiuti per pagare gli affitti e per coprire le spese di prima necessità (gas, luce, ecc.), maggiori controlli per la sicurezza sul posto di lavoro per chi non può lavorare da casa e multe salate per i datori di lavoro che non rispettano gli standard. La pace sociale, che oggi vacilla un DPCM dopo l'altro, si costruisce con la solidarietà, l'universalismo e il controllo sulla discrezionalità dei padroni. Non capire questo significa fare politica "for the few, not for the many". Ancora, ancora e ancora.

31/05/20

Per George Floyd e per tutti gli ultimi del mondo

Vi prego di aprire questa pagina e guardare tutti i video. Rendetevi conto della violenza, dell’abuso di potere, dello squadrismo. Guardate una giovane coppia di afroamericani nella loro auto essere scaraventata a terra e colpita col taser. Guardate un altro giovane afroamericano disarmato essere picchiato selvaggiamente da un poliziotto mentre gli altri lo coprono con le loro armi e i loro scudi. Guardate un anziano indifeso e col bastone essere spinto a terra da un poliziotto in assetto antisommossa. Guardate l’espressione di quell’anziano signore mentre, ancora a terra, viene circondato dai poliziotti.

In questi giorni siamo spettatori di uno spettacolo indecente. Un sistema sull’orlo del collasso che cerca di proteggere se stesso. Che cerca di legittimarsi usando la forza. Un sistema che funziona solo grazie allo sfruttamento e l’abuso sui più deboli. Che annulla i loro diritti, che reprime il dissenso, che mette a tacere le opinioni critiche. Questa è l’America. Questo è il sogno americano con cui ci siamo riempiti la bocca per un secolo. Non le start-up o la Silicon Valley. Non la terra delle opportunità. Questo. La più grande e florida democrazia del mondo accetta, legittima e anzi promuove la violenza delle classi dominanti su quelle subalterne. E’ un fatto incontrovertibile, invisibile solo a chi non ha la voglia di vedere.

Quanto sta accadendo in America dal giorno successivo all’assassinio di George Floyd è la prova definitiva che il capitalismo e le classi dominanti hanno bisogno di questa violenza quotidiana per esistere. Che i feticci della libertà, del mercato, della società globale sono solo narrazioni create per giustificare l’unica vera legge universale: vince il più forte.

Negli ultimi cinquant’anni il nostro sistema economico è entrato in crisi al ritmo di una volta ogni dieci anni. Mietendo ogni volta un numero maggiore di vittime, sacrificate sull’altare della competizione. Il Covid, la bomba sociale che si è abbattuta su questo sistema già in cancrena, renderà evidenti tutte queste contraddizioni. E, forse, discorsi nuovi, più inclusivi e solidali inizieranno ad entrare nel dibattito. Il capitalismo prima o poi morirà, e con lui la sua scia di torti ed abusi, questo è certo. Sta a noi trovare la forza e la fantasia per immaginare un sistema migliore prima che sia troppo tardi.

17/04/20

Filiberto Filetti: Cos'è l'indice R0 e perché è così importante per capire quando potremo sbloccare l'Italia?

L'indice R0 rappresenta il numero medio di infezioni prodotte da ciascun individuo infetto in una popolazione completamente suscettibile cioè mai venuta a contatto con il nuovo patogeno. Questo parametro misura la potenziale trasmissibilità di una malattia infettiva. R0 è influenzato da tre caratteristiche:
  • - La prima è una caratteristica intrinseca di ogni nuovo patogeno cioè la sua virulenza, ovvero quanto è in grado di “attaccarsi” ad un nuovo ospite ad esempio se riesce a diffondersi per via sessuale, o tramite sangue e quanto è efficiente in questa diffusione. Per SARS-COV2 sono sufficienti le goccioline si saliva per diffondersi e dare malattia dunque un solo colpo di tosse è potenzialmente in grado di contagiare decine di persone.
  • - La seconda è relativa alla permanenza del virus nel corpo di un infetto. Se il paziente è contagioso per molti giorni è maggiore la probabilità che infetti più persone. Per SARS-COV2 si resta “infettanti” (passatemi il termine) mediamente per 33 giorni.
  • - La terza caratteristica che influenza R0 è il numero di contatti che ha un infetto. Se un positivo SARS-COV2 lavora come infermiere o lavora in discoteca ha più probabilità di infettare qualcuno rispetto ad un guardiano del faro.
Se R0=1 significa che un contagiato ne contagia soltanto un altro (1X1). L' R0 di SARS-COV2 è stimato tra 1,4 e 3,8 nelle aree più colpite in questa prima fase di diffusione.

La cancelliera tedesca Merkel (con tutti i suoi difetti e la sua poca simpatia), in una conferenza stampa ha ammesso che“Se in Germania ci fosse un R0=1 i posti di terapia intensiva sarebbero prevedibilmente pieni entro il prossimo ottobre. Se il rapporto aumentasse del venti per cento (R=1,2) quei letti sarebbero tutti occupati entro il prossimo luglio. Se il rapporto dovesse aumentare ancora di più (R=1,3), la disponibilità si esaurirebbe invece già a giugno”.
Vi ricordo che la Germania ha 4 volte i nostri posti letto in terapia intensiva. 

Cosa succederebbe dunque se si riaprisse tutto subito, come vorrebbero alcuni governatori o alcuni cittadini? Succederebbe che l'indice R0 schizzerebbe alle stelle e tutto ricomincerebbe come prima e peggio di prima con la gente che muore in corsia per mancanza di respiratori. Se invece il valore di R0 fosse inferiore ad 1 significherebbe che l’epidemia potrebbe essere contenuta.

Quando vi farete i calcoli ricordatevi che la matematica si beffa sempre dei presuntuosi.

Filiberto Filetti

12/04/20

12 aprile: due storie di primavera, buio e rinascita



12 aprile 2008 - 12 aprile 2020. 12 anni esatti. Anni bisestili entrambi e quindi funesti, come credenza vuole. Anni che possono lasciare cicatrici indelebili, e che spesso, per non rischiare di smentire la loro nefasta fama, lo fanno. Guardo il mio viso allo specchio e le vedo. Cicatrici ormai sbiadite dal tempo mi ricordano dolori assopiti. Sono lì per ricordarmi l’aleatorietà, la contingenza, la fortuna. Come la palla da tennis in quel film, “che colpisce il nastro e per un attimo può andare oltre o tornare indietro”. Guardo ancora quelle cicatrici e le paragono alle ferite che vedo oggi sulla pelle di tutti, piaghe ancora aperte per colpa di un virus che ci tiene, da lunghissime settimane, in uno stato d’ibernazione forzata tra quattro mura.

Avevo poco meno di diciassette anni, il 12 aprile di 12 anni fa. Per quanto perennemente inquieto ed allergico alle regole, riguardandomi con gli occhi del me stesso di oggi mi rendo conto di non essere mai stato un adolescente tormentato. Vivevo la mia vita di quel poco che una piccola cittadina dell’entroterra riusciva ad offrire e ne ero tutto sommato felice. Mi bastava. Gli amici, la pallavolo, il calcio, il motorino, gli amori tanto dolorosi quanto brevi, le canzoni, le prime sigarette fumate di nascosto dai miei. Tutto procedeva in un flusso di esperienze del quale non ero assolutamente padrone. Ma non ne ero infastidito, da quella totale assenza di controllo. Un po’ perché la presunzione di un adolescente con un ego ipertrofico mi faceva credere che il controllo delle cose lo avessi io, un po’ perché, alla fine, pur con qualche graffio, dagli inciampi dell’adolescenza ne ero sempre uscito vincitore.
Il 12 aprile sono nati un sacco di miei amici e di mie amiche*. E’ come se i loro genitori avessero deciso di concerto di forzare il ricambio generazionale a Piazza Armerina. Ricordo che il 12 aprile del 2008 ero invitato ad almeno tre feste di compleanno diverse. A quelle feste di compleanno non sono mai potuto andare.

12 aprile 2020. Siamo nel bel mezzo della più grande crisi sanitaria dell’ultimo secolo. Secondo le stime, più di metà della popolazione mondiale – circa 4 miliardi di persone – è confinata tra le proprie mura domestiche. Da più di un mese ci viene ripetuto di restare a casa per limitare il diffondersi di un virus che può causare complicazioni polmonari. Dopo decenni di tagli, i nostri sistemi sanitari non sono attrezzati per far fronte ad una epidemia di massa e se non stessimo a casa rischieremmo di far collassare i nostri ospedali sotto la quantità di persone da curare.
Mentre scrivo sono nella stanza di un appartamento della periferia di Parigi e un sole primaverile rimbalza sulle lenzuola colorate del mio letto, illuminando le mura bianche di rosso e arancio. A Parigi il sole splende quasi ininterrottamente da quando è iniziata questa reclusione forzata. Abituato al grigio plumbeo che caratterizza il cielo di questa città per gran parte dell’anno, mi sorprendo e mi beo dell’eccezionalità della cosa. Tepore, luce e colori riscaldano le mura fredde di un appartamento di tre jeunes adultes che il caso ha voluto trovarsi nello stesso posto allo stesso momento per condividere questa esperienza. I raggi del sole placano almeno in parte la frustrazione del far finta che tutto vada bene, mentre fuori il mondo crolla sotto il peso delle proprie contraddizioni. Per ammazzare il tempo, e per sana solidarietà, ci siamo riscoperti psicologi, ci siamo riscoperti motivatori, esperti di yoga, cuochi. Abbiamo passato ore in videochiamata con gli amici di una vita, tutti sparsi come siamo ai quattro capi d’Europa, per mutualizzare il confino, per farci compagnia. Abbiamo riscoperto il piacere dei dieci minuti di cammino che separano casa nostra dal supermercato più vicino. Scendere in cortile per buttare l’immondizia o andare al tabacchi per comprare le sigarette ci sembrano ormai gesti eccitanti perché proibiti. In mezzo, persone distanti almeno un metro, mascherine chirurgiche, guanti monouso. Le strade vuote e profondo silenzio. Questa visione mi ricorda tanto le domeniche mattina di agosto nelle grandi città. Giorni tranquilli ed assopiti, in attesa del ritorno del caos e della frenesia.

12 aprile del 2008. Per me, una data che traccia una linea profonda sul terreno tra il “prima” e il “dopo” quel giorno. Una sorta di bivio. Sono passati 12 anni. E oggi come allora febbraio aveva un giorno in più. Cado (probabilmente) da un primo piano di un palazzo abbandonato in uno dei boschi che circondano la città in cui sono nato e cresciuto. I miei amici mi ritrovano a terra, stordito, pieno di sangue. Cosa sia successo non lo so, un trauma cranico mi ha asportato – selettivamente e d’imperio – la memoria. Il primo ricordo che ho risale a 24 ore dopo il fatto, ero in una camera d’ospedale. C’erano i miei, mio fratello, la sua compagna. Me li sono ritrovati tutti attorno al mio capezzale. Le loro espressioni appena dopo essermi svegliato resteranno per sempre scolpite nella mia memoria. Ricordo anche la prima frase che pronunciai: “non tutti i mali vengono per nuocere”. Lo dissi a mia madre. Il motivo per cui pronunciai quella frase lo custodisco gelosamente, e, come me, spero anche le persone presenti in quel momento. A causa dell’incoscienza del me stesso adolescente fui costretto a passare tre settimane in ospedale ed altre due a casa, dopo essere stato dimesso.

Mi sono trovato, come ogni anno nei giorni precedenti al 12 aprile, a ricordare quelle settimane di stasi passate tra le mura dell’ospedale e di casa. Penso agli alberi che guardavo fuori dalla finestra e ricordo di come fossero spogli al mio arrivo in ospedale, e di come invece il verde delle loro foglie splendesse rigoglioso quando sono stato dimesso. Ricordo l’odore di fiori e pollini che mi investiva quando aprivo la finestra per far cambiare l’aria.
Sono sempre strani, per me, i giorni che precedono il 12 aprile. Divento più taciturno, più cupo, pensieroso. Ripercorro nella mia testa i passi che mi hanno portato a quel bivio, la strada dissestata che separa la statale e l’edificio in quel bosco di pini ed eucalipti. Ci sono tornato solo una volta dopo quel giorno, ma la strada la ricordo così bene che è come se fosse la strada di casa mia.

Pensare a quel periodo alla luce del confinamento che stiamo vivendo oggi è il motivo per cui ho iniziato a scrivere questa ‘cosa’. In queste settimane mi sono ritrovato spesso affacciato alla finestra di casa mia, e come allora ho assistito all’arrivo della primavera da dietro un vetro. Ho visto le giornate allungarsi, gli alberi riempirsi di foglie, ho sentito l’odore dei fiori inondare le stanze dell’appartamento. Sono stato spettatore dell’alternarsi delle stagioni. E mentre il mio cervello veniva bombardato dalle notizie sulla tragedia sanitaria che stiamo vivendo, mentre il mio cellulare esplodeva di notifiche e chiamate di familiari e amici, pensavo a quanto simili siano questo periodo e quello di 12 anni fa. Anni bisesti entrambi, in cui sono ritrovato imprigionato tra quattro mura. Pensavo a quanto curiosa sia questa coincidenza. 12 anni, 12 aprile. Un evento drammatico che prima riguardava solo me e la mia intimità, adesso riguarda tutti. Uscire, sorridere, abbracciarsi. Ricercare atavicamente il contatto fisico delle persone a noi vicine. Bisogni essenziali, che in tempi normali ci appaiono così naturali da farli essere quasi scontati. Quella prigionia, così come questa, mi ricorda (e ci ricorda) quanto niente di questo bisogno ancestrale sia meritorio di relativizzazione. Mi ricorda, e ci ricorda, l’essenza dell’essere umano in quanto animale sociale, che forma la propria individualità e coscienza grazie al continuo rapporto con l’altro.

Il 12 aprile è per me una di quelle date che hanno scavato una linea profonda sul terreno. Il 12 aprile di 12 anni fa per me ha significato caduta, sofferenza, disagio. Ma anche, e soprattutto, rinascita. Alla fine di quel periodo, quell’adolescente inquieto ed allergico alle regole era diventato un po’ più cosciente di sé. Cosciente dell’aleatorietà, della contingenza, della fortuna. La palla da tennis aveva toccato il nastro ed era andata oltre. E io sapevo che sarebbe potuta restare nel mio, di campo. Lo sapevo e ne ero grato. Guardo di nuovo a quel 12 aprile di 12 anni fa, e lo paragono a questo 12 aprile. E’ Pasqua e siamo tutti forzati a stare a casa, lontani dai nostri amici più cari, lontani dalle nostre famiglie. Siamo isole che aspettano di ricongiungersi alla terraferma senza sapere quando questo avverrà. Esattamente come lo ero io 12 anni fa. E finendo di scrivere queste righe mi sono reso conto di quanto sia la primavera che la Pasqua siano entrambe metafore di rinascita. Laico e confessionale che si fondono in questo 12 aprile di sofferenza e disagio. Che anticipano ineluttabilmente il ritorno alla vita sia del mondo vegetale, con le foglie verdi e l’odore dei fiori, che di quella umana, con la presa di coscienza di ciò che sarà stato questo periodo quando passerà e la volontà di ricostruire i legami, l’empatia e la fiducia nel prossimo che un virus ha rischiato di recidere definitivamente. Laico e confessionale che si fondono per manifestare, tanto ad un adolescente nella sua irrilevante esistenza, quanto ad una parte consistente della popolazione mondiale forzata a casa 12 anni dopo, che al buio segue sempre un risveglio.
Che questa banale consapevolezza possa essere utile ad esorcizzare il prosieguo di una quarantena vissuta da isole, nell’attesa che lo stesso tepore che ha cullato alberi e fiori ci riscaldi quando anche noi potremo di nuovo stringerci senza paura.

Federico Filetti


*Colgo l'occasione per fare a tutti e a tutte i miei più sinceri auguri di buon compleanno.

31/01/20

Il problema non è il coronavirus che ci contagiano i turisti cinesi o la scabbia che rischiamo di prendere grazie a quei morti di fame che vengono dall'Africa. La verità è tutto ciò che è diverso da noi stessi ci sta immensamente sul cazzo. La verità è che, dell'altro, abbiamo essenzialmente paura. Ci infastidisce, ci irrita. L'io e l'altro sono due unità non solo inconciliabili ma anche respingenti. Io non sono il cinese malato. Io non sono il nero morto di fame. Io non sono il posto in cui abito, le persone che mi circondano, il vicino di casa che sento scopare alle due di notte, il collega invidioso, il clochard che mi chiede l'elemosina fuori dalla chiesa. Io sono io. Disgiunto e slegato da tutto il resto.

E grazie al coronavirus adesso abbiamo una scusa in più per mentire a noi stessi e continuare a raccontarci la favola del lupo cattivo che viene da fuori privandoci della nostra pace esistenziale. Abbiamo un'occasione ghiotta per rinforzare in noi stessi l'idea che "vedi? te l'avevo detto che sti stranieri portano solo guai!". Perché poi alla fine è solo una questione di quanto riesci ad essere onesto con te stesso guardandoti allo specchio. E ci vuole grande onestà intellettuale ad ammettere a se stessi, la mattina lavandosi i denti, che forse ci siamo tutti incattiviti. Che siamo arrabbiati, insofferenti, frustrati. Che siamo soli. Atomizzati, e in quanto atomi siamo instabili, pronti ad esplodere liberando istantaneamente megatoni di energia negativa in un fungo di incandescente disumanità.

Io non lo vedo bene sto futuro. Sta narrazione positivista, sto feticcio del progresso sociale ed umano mi sembrano tutte delle gran cazzate. Mi sembra che la cattiveria che vedo attorno a me ogni giorno, dalla quale cerco con tutte le mie forze di immunizzarmi e che colpisce indistintamente tutti gli strati della popolazione, sia qualcosa di antico. Una condizione che contraddistingue l'essere umano sin dall'alba della Storia. Innata, genetica. Che quindi la strada è già tracciata, che siamo diretti verso un muro come lo siamo stati un'infinità di volte sin da quando abbiamo messo piede su questo pianeta.

Rileggo le parole che ho scritto e mi rendo conto di quanto determinismo trasudino. Insopportabili. E allora penso che forse cambiare binari alla Storia è possibile. Che bisogna solo rimboccarsi le maniche, iniziare a muoversi, che non è tutto perduto, che alla fine anche esseri imperfetti come noi possono imparare dagli errori propri e degli altri. Non lo so. Vorrei che fosse possibile, vorrei credere nelle potenzialità salvifiche dello stare tutti assieme in pace. E, soprattutto, vorrei non farla essere una verità di comodo che mi costruisco la mattina lavandomi i denti, solo per salvarmi dal pessimismo cosmico che sento soffiarmi dietro l'orecchio.
Vorrei degli esempi positivi, persone alle quali ispirarmi. Ma quelli ci sono, e c'è solo da rimboccarsi le maniche.
"Il pessimismo dell'intelligenza, l'ottimismo della volontà".
© Federico Filetti
Maira Gall