Le elezioni europee del maggio 2019 sono alle porte e con
ogni probabilità segneranno uno sconvolgimento dell’assetto politico del
Vecchio Continente. I due partiti tradizionali, il PPE e il PSE, sono in calo
di consensi ormai da anni in tutta Europa, così come le formazioni nazionali
che li compongono. Le politiche liberali di cui entrambi si sono fatti
portatori si sono scontrate con gli effetti di lungo periodo della crisi,
gonfiando le vele ai populismi. E’ proprio sui risultati dei partiti populisti
che si giocherà la sfida fondamentale per il futuro dell’Unione. Se la destra
populista riuscirà a raggiungere percentuali paragonabili a quelle nazionali,
sposteranno verso destra l’asse del PPE, rischiando di far implodere il
progetto di unità europea in virtù della loro spinta disgregante. Allo stesso
tempo, il PSE sembra voler proseguire nella sua strategia centrista,
cancellando a monte qualsiasi tentativo di dialogo con le formazioni della
sinistra radicale (come succede già adesso in Italia), e continuando a perdere
il consenso delle classi popolari.
In questo scenario, alcune nuove formazioni politiche
sostenute da larga parte dell’opinione pubblica di area progressista spingono
affinché l’azione politica europea possa diventare più uniforme e centralizzata
rispetto a quanto non lo sia adesso.
E’ il caso di Volt, il primo movimento paneuropeo che, a
differenza dei partiti nazionali, si presenta con lo stesso simbolo e con lostesso programma in otto Paesi europei. Da molti identificato con l’appellativo
di “partito
dei millennials”, è nato dopo la Brexit perché “le tendenze reazionarie e populiste
stanno minacciando i valori in cui i nostri membri credono, e le fazioni
politiche tradizionali non riescono più a fornire risposte concrete alle sfide
del presente”.
Incuriosito dall’attenzione che i media hanno rivolto a
questo neonato movimento, colpito dalla sua sorprendente capacità
organizzativa, dalla efficace ars
oratoria dei propri leader e dall’affinità generazionale che mi lega ai
suoi creatori ho iniziato a documentarmi. Ho letto la carta programmatica (che
si chiama Dichiarazione
di Amsterdam), ho ascoltato le interviste, ho letto articoli e ad ogni
tassello che aggiungevo, venivo investito da una serie di dubbi che mi sembrava
minassero la credibilità del progetto politico. Dubbi che riguardano innanzi
tutto la piattaforma programmatica, ovvero gli obiettivi politici che si pone
il movimento e di come questi obiettivi debbano essere tradotti in azioni, e
poi la retorica attraverso cui questo insieme di intenti e di proposte viene
comunicato al potenziale elettore.
E’ un movimento che si pone in antitesi rispetto ai
populismi ma
si dichiara né di destra né di sinistra, esattamente come molti dei partiti
populisti in giro per l’Europa. Come i partiti populisti, rivendicano, a
testimonianza della loro purezza, l’inesperienza
politica e non si identificano nella dicotomia storica tra destra e
sinistra. Una retorica, questa, che è nata in Italia con il Movimento 5 Stelle e che è stata mutuata
da En Marche! nella campagna
elettorale che ha portato Emmanuel Marcon all’Eliseo. Una contraddizione che,
come abbiamo visto, non può risolversi in campagna elettorale e che si
risolverà nel momento in cui gli eletti dovranno prendere delle decisioni politiche.
La storia recente ci insegna molto a riguardo. In Italia, il Movimento 5 Stelle
dall’alto della sua purezza e della sua retorica post-ideologica è finita ad
attuare politiche di destra sociale (ossia quelle volte a proteggere i
lavoratori, possibilmente italiani, bianchi e uomini, a scapito delle
minoranze), mentre, in Francia, Macron implementa politiche liberiste e taglia
indiscriminatamente lo stato sociale, costringendo i Gilet Gialli ad occupare le
strade di Parigi e della Francia per più di tre mesi. A vantaggio unico di Lega
e Front National: la destra vera, quella nostalgica e reazionaria.
Alla retorica populista, Volt affianca una visione contraddittoria del
futuro dell’Europa. Insieme ad una (giusta, a mio avviso) attenzione ai diritti
civili, alla sostenibilità ambientale, all’attenzione verso le minoranze ci
sono forti ambiguità legate ai modi in cui questi obiettivi debbano essere
perseguiti: in altre parole, il ruolo che lo Stato deve avere nel gestire il ciclo
economico. Se da un lato leggiamo che “lo Stato deve farsi portatore
di un sistema di solidarietà per i soggetti più vulnerabili”, dall’altro
leggiamo che “il suo intervento deve essere il più piccolo e più veloce
possibile” e che “lo Stato non può e non deve pianificare o prevedere l’innovazione”.
Compito che è delegato al mercato, che, in quanto “libero e aperto, crea le più
grandi possibilità di arricchimento per tutti”.
L’assenza pressoché totale di critica al paradigma liberale
diventa lampante quando al congresso nazionale di Volt Italia viene invitato
Carlo Calenda, un politico che non ha vergogna nel dichiarare che il liberismo è
di sinistra, o quando uno dei leader del movimento dichiara che “il
liberalismo forse si è un po’ incagliato su una visione economicistica e
deterministica degli individui”. Forse. Un po’.
La stessa visione economicistica e deterministica che lo ha
portato a dichiarare, due righe più giù, che la soluzione è “il taglio
immediato e significativo del cuneo fiscale per dare ossigeno a tutti quei
milioni di giovani che ad oggi arrivano a fine mese solo grazie agli aiuti di
nonni e genitori”. Fare un’esegesi dell’ideologia dominante per criticare
l’ideologia dominante. Un capolavoro retorico.
E’ comunque doveroso sottolineare che molti dei punti
programmatici di Volt non sono solo condivisibili, ma anzi di necessaria
attuazione. Ho trovato molto interessante, ad esempio, la proposta di espandere
il mandato della Banca Centrale Europea non solo al controllo dell’inflazione
ma anche a quello del livello di occupazione, come succede anche con la FED
negli Stati Uniti. Così come sono
condivisibili le proposte di centralizzazione a livello europeo di parte della
spesa pubblica, dell’unione bancaria, dell’istituzione di una tassa europea
sulle imprese e del ministero delle finanze che rappresenti tutta l’Unione. In
generale, mi sembra che molti dei punti programmatici volti a federare gli
Stati guardino nella giusta direzione.
Tuttavia, il programma presenta molte profonde mancanze e
altrettante ambiguità di difficile risoluzione.
Ritengo scandaloso che nella piattaforma programmatica e
nella sua appendice non vengano neanche citate le parole “debito pubblico” o “debito pubblico europeo”: non si fa riferimento ai vincoli di
Maastricht su debito e pil, i cui effetti perversi sono responsabili della
macelleria sociale nella quale ci troviamo oggi, e non si accenna neanche a
proposte su un “debito pubblico europeo”,
uno dei pochi meccanismi che possa realmente aumentare la solidarietà tra gli
Stati Membri. Sarebbe grave se si trattasse di una semplice dimenticanza, visto
che stiamo parlando di una forza politica che sta comunque chiedendo il voto a
centinaia di milioni di persone, ma sarebbe ancor più grave se questa mancanza
nascondesse la paura di prendere una posizione chiara a riguardo.
Un’altra grave mancanza programmatica è quella di un salario minimo europeo, che si porrebbe
come risposta alle pressioni a ribasso sui salari date dalla presenza di una
nutrita manodopera di riserva: l’istituzione di un salario minimo ridurrebbe i
fenomeni di dumping nella parte inferiore della piramide sociale, sia per i
cittadini europei che per le minoranze etniche disposte ad accettare stipendi
da fame pur di lavorare.
Quanto alle ambiguità programmatiche, ciò che per Volt
sembra non essere chiaro è che competitività e protezione sociale siano due
fattori mutualmente esclusivi.
Non è chiaro come le proposte di aumento della protezione
sociale dei lavoratori atipici (tra i quali, ad esempio, i
riders) possano essere conciliate con il fatto che il vantaggio competitivo
di aziende come Foodora o Deliveroo sia basato sullo sfruttamento della
manodopera in cambio di zero garanzie e stipendi da fame. Aumentare la
protezione sociale di queste categorie implicherebbe un maggior costo del
lavoro per queste aziende, che come conseguenza della libera circolazione dei
capitali scapperebbero subito verso altri lidi.
Così come non è chiaro come l’appoggio incondizionato al
libero mercato possa conciliarsi con le proposte di aumento delle protezioni per gli agricoltori locali, che dai trattati di libero scambio firmati in Europa sono
stati danneggiati.
Volt, così come En Marche! (al quale Volt mi sembra si
ispiri), mirano a guadagnare voti smarcandosi dalla dicotomia destra/sinistra e
ponendosi in alternativa ai populismi.
Tuttavia, ciò che appare chiaro è che le contraddizioni
insite nella retorica e nel programma attraverso cui Volt si sta presentando
all’elettorato europeo risentono da un lato dell’ormai quarantennale egemonia
culturale del liberismo, dall’altro delle spinte protezionistiche che i
populismi sostengono da quando il paradigma liberale ha iniziato a mostrare le
sue falle. Così facendo, questo movimento ha assimilato, introiettandoli, i
principali difetti delle due visioni.
Inoltre, i presupposti teorici su cui Volt si fonda mi
sembrano deboli: essi semplificano la realtà fino ad invertire i rapporti di
causa ed effetto. Nella loro analisi, infatti, Brexit e i populismi vengono
presi solo come variabile indipendente del sistema, come la causa che rischia
di influenzare un processo. Invece, i populismi sono il risultato
dell’interazione tra il sistema economico egemone, quello liberista che è
intrinsecamente portato a polarizzare la ricchezza, e il
sistema politico, quello della democrazia liberale, in cui i meccanismi di rappresentanza
si sono rivelati incapaci di gestire le tensioni sociali create dal sistema economico.
Il tentativo che Volt sta compiendo di dare un volto umano al capitalismo e al libero mercato non è
innovativo: furono Tony Blair e Bill Clinton i primi a provarci più di
vent’anni fa, seguiti a ruota da moltissimi emuli in tutto il mondo
Occidentale, e dalle loro politiche ne è emersa la crisi più grande della
storia del capitalismo. Ignorare la necessità di uno Stato (o di un insieme di
Stati) che non solo regoli ma che intervenga massicciamente per garantire uguaglianza e solidarietà, ignorare che il trade-off che esiste tra welfare universale
e libertà di movimento dei capitali debba risolversi necessariamente in favore
del primo, ignorare che il conflitto tra capitale e lavoro è oggi forte come e
forse più di quanto non lo sia stato durante tutto il ‘900, vuol dire porsi in
una posizione antistorica. Vuol dire o non avere idea del qui e dell’ora,
oppure vuol dire prendere ufficialmente atto di rappresentare una piccola e
privilegiata parte della popolazione europea.
Verrà un momento in cui questi futuri giovani deputati europei
verranno chiamati a decidere se stare dalla parte di chi con la globalizzazione
ci ha guadagnato, o se stare dalla parte di chi ha perso. A quel punto vedremo
di che pasta sono fatti.
Federico Filetti