11/03/24

QUALCHE PENSIERO SULLE ULTIME DUE ELEZIONI REGIONALI E UNA RIFLESSIONE SU SINISTRA E AREE INTERNE. SENZA PRETESA DI VERITÀ.

Sardegna e Abruzzo non sono per niente lontane. In Sardegna la destra ha perso per il voto disgiunto che ha penalizzato un candidato scarso e poco amato, ma in entrambe le regioni le liste sono andate molto bene e molto meglio di quelle del Campo Largo. 

Prendendo un po’ di distanza della retorica del “noi contro di loro”, delle matite contro i manganelli, del berlusconianissimo “sono e resteranno sempre dei comunisti” pronunciato durante il comizio dal Ministro Sangiuliano, il dato più lampante resta questo. Le liste di destra vincono perché sono presenti sul territorio, e sono ancora più presenti nelle aree interne. Le controllano, le battono palmo a palmo, ne conoscono gli umori, le ansie e le frustrazioni. Entrano in empatia con le persone, creano clientele, rapporti di prossimità, si fanno conoscere e riconoscere. E questo lavoro lento e costante si traduce poi in voto. E infatti nei centri più grandi, dove questa prossimità manca e quindi dove il voto di opinione è più probabile, la destra fa più fatica. Anche perché nelle grandi città ci sono più giovani e le persone hanno titoli di studio e redditi tendenzialmente più elevati. Fattori che influenzano sensibilmente le dinamiche elettorali verso partiti meno conservatori. 

Ma quindi, perché un partito grosso e storicamente strutturato come il PD perde dove la gente sta peggio? La famosa storia del partito che nel “borghesizzarsi” ha perso il contatto con gli ultimi è sicuramente una parte di verità, ma secondo me non è tutta la verità. E allora la domanda diventa: perché il PD perde nei luoghi in cui è possibile creare un rapporto di prossimità con l’elettorato? Nei luoghi in cui è possibile conoscersi, riconoscersi, parlarsi da pari a pari? 

La difficoltà del Movimento 5 Stelle di affermarsi a livello locale, per quanto paradossale visto che è un movimento nato dai Meetup cittadini, la conosciamo. Dall’ingresso in Parlamento nel 2013 fino all’inizio della segreteria Conte, il movimento ha cercato di massimizzare la sua base elettorale smarcandosi dalla dicotomia destra-sinistra. Per questo, ha imbarcato un sacco di gente di destra che poi è ritornata all’ovile quando il Movimento si è spostato a sinistra (e la destra dura ha iniziato a contare di più). Questa transumanza ha rallentato la creazione di una classe dirigente fuori da Roma. 

E il PD? Io non ho un’esperienza di militanza alle spalle, e quindi mi viene difficile rintracciare con contezza le cause di questo scollamento. Mi limito a riflettere basandomi su ciò che ho conosciuto, sui ricordi della militanza di mio padre all’inizio dei 2000 nell’Ulivo prima e nel PD poi, sulle testimonianze degli amici con una storia decennale di militanza. Mi ricordo di discussioni, di riunioni, di eventi, spesso e non solo in periodo elettorale. Quando è successo? Quando è iniziato questo processo di destrutturazione del partito, che da partito di prossimità è diventato un comitato elettorale che si attiva sei mesi prima delle elezioni per poi disfarsi dopo la sconfitta? Quand’è che si è passati dal paradigma della militanza a quello della fedeltà verso il capobastone locale, feudatario di questo o quel segretario? Da Renzi? Prima? 

E proprio perché voglio parlare di ciò che conosco, non posso far altro che paragonare il risultato dell’Abruzzo con quello che è successo nelle due ultime elezioni comunali nella mia città, Piazza Armerina. Candidati progressisti guidati dal PD. Bravi, che hanno fatto opposizione con competenza, che hanno studiato un sacco di carte e che sono stati capaci di mettere attorno ad un tavolo una squadra di persone altrettanto brave e perbene. Perché hanno perso entrambe le elezioni contro la destra? E’ una domanda tutto fuorché retorica, ma qualcosa mi dice che la ragione debba essere cercata nell’assenza di struttura. Un PD che ha supportato, a mio avviso, poco e male la campagna elettorale (non mandando neanche un nome grosso da Roma, mentre i 5 Stelle mandavano Fico), che si è riunito soltanto per le elezioni, sfaldandosi dopo e lasciando soli e senza supporto i loro consiglieri eletti. Il risultato è che la destra, che il territorio lo controlla molto e da molto tempo, vince con percentuali bulgare anche quando si presenta divisa. Sono andato a controllare i risultati delle ultime comunali, e insieme destra e centro-destra hanno preso il 57% dei voti al primo turno (32.3% la coalizione del sindaco riconfermato, 21.7 quella del suo contendente). 

Ora, so perfettamente quanto sia rischioso trarre conclusioni generali da situazioni locali e contingenti. E’ però anche vero che la Sicilia, l’Abruzzo e la Sardegna soffrono tutte e tre degli stessi problemi: un tessuto economico povero ed impoverito dalla sempre più grande concentrazione del capitale nelle regioni e città del nord, la denatalità e l’invecchiamento della popolazione (con gli anziani che votano più a destra dei giovani), l’emigrazione, i tagli al welfare, l’assenza di investimenti, eccetera. Sono quindi portato a pensare che questi simili risultati elettorali siano in qualche modo causati dall’assenza del partito ancor prima che dalle preferenze dell’elettorato rispetto ai programmi. 

Che implicazioni ha tutto questo sul cosiddetto “Campo largo”? La prima è che se il PD e i 5 Stelle non decideranno di strutturarsi a livello locale continueranno a perdere e i loro leader verranno rimpiazzati da chi alle loro spalle sta già affilando i coltelli per prenderne il posto (ovvero, i “riformisti” dentro il PD e la componente di destra nei 5 Stelle). Il problema è che queste componenti vanno spesso a braccetto con i post-fascisti – sia in politica economica, che in politica interna ed estera – e tra la copia e l’originale gli elettori scelgono sempre l’originale. Questo significherebbe una cristallizzazione del consenso per la destra-destra in un momento in cui guadagnano terreno in tutta Europa, rischiando di aprire un ciclo politico ventennale (corsi e ricorsi storici). 

Si dirà, “eh, ma Schlein è arrivata da poco, non possiamo chiederle di cambiare un partito in un anno”. Vero, e lo stesso è valido per Conte. Radicare un partito sul territorio richiede un sacco di tempo e un sacco di risorse, sia in termini finanziari che umani. Ri-radicarlo, forse, ancora di più. Ma è anche vero che in un anno di segreteria da questo fronte si è visto poco se non niente. PD e 5 Stelle fino a qualche tempo fa avevano il problema di non essere di sinistra. Ora che hanno capito l’importanza dell’essere di sinistra, soprattutto in questo periodo storico, il problema diventa farlo capire agli elettori standogli vicino. Le elezioni in Sardegna ed Abruzzo ci insegnano che si vince solo così.

ff

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© Federico Filetti
Maira Gall