12 aprile 2008 - 12 aprile 2020. 12 anni esatti. Anni bisestili entrambi e quindi funesti, come credenza vuole. Anni che possono lasciare cicatrici indelebili, e che spesso, per non rischiare di smentire la loro nefasta fama, lo fanno. Guardo il mio viso allo specchio e le vedo. Cicatrici ormai sbiadite dal tempo mi ricordano dolori assopiti. Sono lì per ricordarmi l’aleatorietà, la contingenza, la fortuna. Come la palla da tennis in quel film, “che colpisce il nastro e per un attimo può andare oltre o tornare indietro”. Guardo ancora quelle cicatrici e le paragono alle ferite che vedo oggi sulla pelle di tutti, piaghe ancora aperte per colpa di un virus che ci tiene, da lunghissime settimane, in uno stato d’ibernazione forzata tra quattro mura.
Avevo poco meno di diciassette anni, il 12 aprile di 12 anni fa. Per quanto perennemente inquieto ed allergico alle regole, riguardandomi con gli occhi del me stesso di oggi mi rendo conto di non essere mai stato un adolescente tormentato. Vivevo la mia vita di quel poco che una piccola cittadina dell’entroterra riusciva ad offrire e ne ero tutto sommato felice. Mi bastava. Gli amici, la pallavolo, il calcio, il motorino, gli amori tanto dolorosi quanto brevi, le canzoni, le prime sigarette fumate di nascosto dai miei. Tutto procedeva in un flusso di esperienze del quale non ero assolutamente padrone. Ma non ne ero infastidito, da quella totale assenza di controllo. Un po’ perché la presunzione di un adolescente con un ego ipertrofico mi faceva credere che il controllo delle cose lo avessi io, un po’ perché, alla fine, pur con qualche graffio, dagli inciampi dell’adolescenza ne ero sempre uscito vincitore.
Il 12 aprile sono nati un sacco di miei amici e di mie amiche*. E’ come se i loro genitori avessero deciso di concerto di forzare il ricambio generazionale a Piazza Armerina. Ricordo che il 12 aprile del 2008 ero invitato ad almeno tre feste di compleanno diverse. A quelle feste di compleanno non sono mai potuto andare.
12 aprile 2020. Siamo nel bel mezzo della più grande crisi sanitaria dell’ultimo secolo. Secondo le stime, più di metà della popolazione mondiale – circa 4 miliardi di persone – è confinata tra le proprie mura domestiche. Da più di un mese ci viene ripetuto di restare a casa per limitare il diffondersi di un virus che può causare complicazioni polmonari. Dopo decenni di tagli, i nostri sistemi sanitari non sono attrezzati per far fronte ad una epidemia di massa e se non stessimo a casa rischieremmo di far collassare i nostri ospedali sotto la quantità di persone da curare.
Mentre scrivo sono nella stanza di un appartamento della periferia di Parigi e un sole primaverile rimbalza sulle lenzuola colorate del mio letto, illuminando le mura bianche di rosso e arancio. A Parigi il sole splende quasi ininterrottamente da quando è iniziata questa reclusione forzata. Abituato al grigio plumbeo che caratterizza il cielo di questa città per gran parte dell’anno, mi sorprendo e mi beo dell’eccezionalità della cosa. Tepore, luce e colori riscaldano le mura fredde di un appartamento di tre jeunes adultes che il caso ha voluto trovarsi nello stesso posto allo stesso momento per condividere questa esperienza. I raggi del sole placano almeno in parte la frustrazione del far finta che tutto vada bene, mentre fuori il mondo crolla sotto il peso delle proprie contraddizioni. Per ammazzare il tempo, e per sana solidarietà, ci siamo riscoperti psicologi, ci siamo riscoperti motivatori, esperti di yoga, cuochi. Abbiamo passato ore in videochiamata con gli amici di una vita, tutti sparsi come siamo ai quattro capi d’Europa, per mutualizzare il confino, per farci compagnia. Abbiamo riscoperto il piacere dei dieci minuti di cammino che separano casa nostra dal supermercato più vicino. Scendere in cortile per buttare l’immondizia o andare al tabacchi per comprare le sigarette ci sembrano ormai gesti eccitanti perché proibiti. In mezzo, persone distanti almeno un metro, mascherine chirurgiche, guanti monouso. Le strade vuote e profondo silenzio. Questa visione mi ricorda tanto le domeniche mattina di agosto nelle grandi città. Giorni tranquilli ed assopiti, in attesa del ritorno del caos e della frenesia.
12 aprile del 2008. Per me, una data che traccia una linea profonda sul terreno tra il “prima” e il “dopo” quel giorno. Una sorta di bivio. Sono passati 12 anni. E oggi come allora febbraio aveva un giorno in più. Cado (probabilmente) da un primo piano di un palazzo abbandonato in uno dei boschi che circondano la città in cui sono nato e cresciuto. I miei amici mi ritrovano a terra, stordito, pieno di sangue. Cosa sia successo non lo so, un trauma cranico mi ha asportato – selettivamente e d’imperio – la memoria. Il primo ricordo che ho risale a 24 ore dopo il fatto, ero in una camera d’ospedale. C’erano i miei, mio fratello, la sua compagna. Me li sono ritrovati tutti attorno al mio capezzale. Le loro espressioni appena dopo essermi svegliato resteranno per sempre scolpite nella mia memoria. Ricordo anche la prima frase che pronunciai: “non tutti i mali vengono per nuocere”. Lo dissi a mia madre. Il motivo per cui pronunciai quella frase lo custodisco gelosamente, e, come me, spero anche le persone presenti in quel momento. A causa dell’incoscienza del me stesso adolescente fui costretto a passare tre settimane in ospedale ed altre due a casa, dopo essere stato dimesso.
Mi sono trovato, come ogni anno nei giorni precedenti al 12 aprile, a ricordare quelle settimane di stasi passate tra le mura dell’ospedale e di casa. Penso agli alberi che guardavo fuori dalla finestra e ricordo di come fossero spogli al mio arrivo in ospedale, e di come invece il verde delle loro foglie splendesse rigoglioso quando sono stato dimesso. Ricordo l’odore di fiori e pollini che mi investiva quando aprivo la finestra per far cambiare l’aria.
Sono sempre strani, per me, i giorni che precedono il 12 aprile. Divento più taciturno, più cupo, pensieroso. Ripercorro nella mia testa i passi che mi hanno portato a quel bivio, la strada dissestata che separa la statale e l’edificio in quel bosco di pini ed eucalipti. Ci sono tornato solo una volta dopo quel giorno, ma la strada la ricordo così bene che è come se fosse la strada di casa mia.
Sono sempre strani, per me, i giorni che precedono il 12 aprile. Divento più taciturno, più cupo, pensieroso. Ripercorro nella mia testa i passi che mi hanno portato a quel bivio, la strada dissestata che separa la statale e l’edificio in quel bosco di pini ed eucalipti. Ci sono tornato solo una volta dopo quel giorno, ma la strada la ricordo così bene che è come se fosse la strada di casa mia.
Pensare a quel periodo alla luce del confinamento che stiamo vivendo oggi è il motivo per cui ho iniziato a scrivere questa ‘cosa’. In queste settimane mi sono ritrovato spesso affacciato alla finestra di casa mia, e come allora ho assistito all’arrivo della primavera da dietro un vetro. Ho visto le giornate allungarsi, gli alberi riempirsi di foglie, ho sentito l’odore dei fiori inondare le stanze dell’appartamento. Sono stato spettatore dell’alternarsi delle stagioni. E mentre il mio cervello veniva bombardato dalle notizie sulla tragedia sanitaria che stiamo vivendo, mentre il mio cellulare esplodeva di notifiche e chiamate di familiari e amici, pensavo a quanto simili siano questo periodo e quello di 12 anni fa. Anni bisesti entrambi, in cui sono ritrovato imprigionato tra quattro mura. Pensavo a quanto curiosa sia questa coincidenza. 12 anni, 12 aprile. Un evento drammatico che prima riguardava solo me e la mia intimità, adesso riguarda tutti. Uscire, sorridere, abbracciarsi. Ricercare atavicamente il contatto fisico delle persone a noi vicine. Bisogni essenziali, che in tempi normali ci appaiono così naturali da farli essere quasi scontati. Quella prigionia, così come questa, mi ricorda (e ci ricorda) quanto niente di questo bisogno ancestrale sia meritorio di relativizzazione. Mi ricorda, e ci ricorda, l’essenza dell’essere umano in quanto animale sociale, che forma la propria individualità e coscienza grazie al continuo rapporto con l’altro.
Il 12 aprile è per me una di quelle date che hanno scavato una linea profonda sul terreno. Il 12 aprile di 12 anni fa per me ha significato caduta, sofferenza, disagio. Ma anche, e soprattutto, rinascita. Alla fine di quel periodo, quell’adolescente inquieto ed allergico alle regole era diventato un po’ più cosciente di sé. Cosciente dell’aleatorietà, della contingenza, della fortuna. La palla da tennis aveva toccato il nastro ed era andata oltre. E io sapevo che sarebbe potuta restare nel mio, di campo. Lo sapevo e ne ero grato. Guardo di nuovo a quel 12 aprile di 12 anni fa, e lo paragono a questo 12 aprile. E’ Pasqua e siamo tutti forzati a stare a casa, lontani dai nostri amici più cari, lontani dalle nostre famiglie. Siamo isole che aspettano di ricongiungersi alla terraferma senza sapere quando questo avverrà. Esattamente come lo ero io 12 anni fa. E finendo di scrivere queste righe mi sono reso conto di quanto sia la primavera che la Pasqua siano entrambe metafore di rinascita. Laico e confessionale che si fondono in questo 12 aprile di sofferenza e disagio. Che anticipano ineluttabilmente il ritorno alla vita sia del mondo vegetale, con le foglie verdi e l’odore dei fiori, che di quella umana, con la presa di coscienza di ciò che sarà stato questo periodo quando passerà e la volontà di ricostruire i legami, l’empatia e la fiducia nel prossimo che un virus ha rischiato di recidere definitivamente. Laico e confessionale che si fondono per manifestare, tanto ad un adolescente nella sua irrilevante esistenza, quanto ad una parte consistente della popolazione mondiale forzata a casa 12 anni dopo, che al buio segue sempre un risveglio.
Che questa banale consapevolezza possa essere utile ad esorcizzare il prosieguo di una quarantena vissuta da isole, nell’attesa che lo stesso tepore che ha cullato alberi e fiori ci riscaldi quando anche noi potremo di nuovo stringerci senza paura.
Federico Filetti
*Colgo l'occasione per fare a tutti e a tutte i miei più sinceri auguri di buon compleanno.
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