fonte: http://www.linkiesta.it/strage-di-capaci#ixzz1vPKH28nE
«Orrore, ucciso Falcone» è il titolo a tutta pagina del Corriere della sera del 24 maggio 1992. Il giorno prima è avvenuta la strage di Capaci, sull'autostrada che dall'aeroporto Punta Raisi porta a Palermo, in cui con 500 chili di tritolo vengono massacrati il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, e tre agenti della scorta: Vito Schifani, Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro. Il magistrato viene portato in condizioni disperate all'ospedale di Palermo dove muore tra le braccia di Paolo Borsellino, immediatamente accorso. Nel carcere dell'Ucciardone al grido di «gli hanno fatto saltare i coglioni» i detenuti esplodono in un fragoroso applauso.
«Falcone è stato ucciso in un momento nel quale l'impotenza del Parlamento è sotto gli occhi di tutti. Circostanza che non può non ingenerare in ogni cittadino sgradevoli confronti tra cosa può la mafia e cosa non può la nostra classe politica», scrive Paolo Mieli, l'allora direttore della Stampa (giornale con cui Falcone collaborava). In realtà, la mafia sceglie di colpire in un periodo in cui stanno accadendo cambiamenti epocali: il 17 febbraio, a Milano, avviene il primo arresto di quella che entro breve sarà chiamata Tangentopoli. Infatti, mentre riceve una tangente, finisce in manette Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio. Non passa neanche un mese e il 12 marzo a Palermo viene ucciso Salvo Lima, l'uomo di Giulio Andreotti in Sicilia. È la fine del Caf, l'asse tra Craxi, Andreotti e Forlani, che da anni governa l'Italia, garantito dalla presenza al Quirinale di Francesco Cossiga. In pochi mesi smettono di rifulgere tutte queste stelle di prima grandezza della politica italiana.
Il 4 aprile 1992 gli italiani vanno alle urne. Li accompagna il settimo governo Andreotti, con il braccio destro di Craxi, Claudio Martelli, come ministro della Giustizia e vice premier. Il segnale mandato dagli elettori delle ultime elezioni con proporzionale e preferenze della storia repubblicana è chiaro: il quadripartito al governo (Dc, Psi, Psdi, Pli) perde la maggioranza; la Dc per la prima volta dal dopoguerra scende al di sotto del 30 per cento, il Psi per la prima volta nell'era Craxi retrocede anziché avanzare. Anche le opposizioni, in ogni caso, subiscono mutamenti radicali: il Pci non esiste più, sciolto dal segretario Achille Occhetto poco più di un anno prima. Al suo posto si presentano agli elettori il Pds, che prende il 16 per cento, e Rifondazione comunista (5,6 per cento). Notevolissima anche l'affermazione della Lega Nord che con il suo 8,6 per cento può per la prima volta formare gruppi parlamentari autonomi.
Il presidente Cossiga è in scadenza, ma il 28 aprile, ovvero due mesi prima della fine naturale del mandato, si dimette. L'interim viene assunto dal presidente del Senato, Giovanni Spadolini; il neoinsediato parlamento deve provvedere a eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Il candidato ufficiale della Dc è Arnaldo Forlani e anche le pietre sanno che darebbe a Bettino Craxi l'incarico di formare il nuovo governo. Giulio Andreotti rimarrebbe fermo un giro, ma non è uomo che abbia bisogno di medaglie per esercitare il suo potere.
I segnali arrivati, però, cominciano a scompaginare i piani: Tangentopoli colpisce il Psi, l'omicidio Lima tocca Andreotti, le elezioni ridimensionano la maggioranza uscente. Cominciano gli scrutini a Camere riunite per eleggere il nuovo capo dello Stato, ma si susseguono uno dopo l'altro senza arrivare a un risultato concreto. Il 23 maggio si tiene il quindicesimo scrutinio, a prendere più voti (235) è Giovanni Conso, già presidente della Corte Costituzionale (e futuro ministro della Giustizia del governo Amato).
Ma a poche ore di distanza, il mondo cambia. Quella mezza tonnellata di tritolo che ammazza Giovanni Falcone contribuisce a terremotare il mondo politico come probabilmente mai gli ideatori dell'attentato si sarebbero aspettati. Il magistrato palermitano era stato coinvolto da Craxi nelle polemiche contro i «professionisti dell'antimafia», termine coniato da Leonardo Sciascia con un articolo nel Corriere della sera del 10 gennaio 1987 (alle accuse contro il pool antimafia si unirà anche Leoluca Orlando). Stanco di tanti scontri e dissidi, Falcone accetta un incarico a Roma e va a dirigere la sezione affari penali del ministero della Giustizia, retto, come ricordato, dal delfino di Craxi, Claudio Martelli. La morte del magistrato si ripercuote inevitabilmente contro alcuni dei suoi detrattori.
Il giorno successivo alla strage di Capaci viene eletto il presidente della Repubblica: è Oscar Luigi Scalfaro, che pochi giorni prima era diventato presidente della Camera. La maggioranza è schiacciante: 672 voti (ne bastavano 508); la Lega non si unisce al coro di consensi e vota il suo candidato di bandiera, Gianfranco Miglio. Scalfaro – scomparso nel gennaio 2012 – è un politico di lunghissimo corso, ma resta una figura politica integerrima. La sua intransigenza è proverbiale (nel 1950 invita con veemenza a ricoprirsi una signora che in un ristorante romano si era tolta un bolerino rimanendo a spalle scoperte). Il fatto di non essere minimamente sospettabile di comportamenti scorretti è determinante per la sua elezione (e infatti sarà aspramente criticato dal punto di vista politico, ma sulla sua onestà personale non ci sarà mai nulla da ridire). Ora bisogna nominare il nuovo presidente del Consiglio. Craxi si aspetta di essere il prescelto, invece Scalfaro opta per Giuliano Amato. Il leader socialista al momento non è indagato, ma dopo l'arresto di Silvano Larini si capisce che gli inquirenti gli si stanno avvicinando. Scalfaro è presidente, Amato premier (gli succederà Carlo Azeglio Ciampi); Forlani esce di scena, Craxi sta per farlo, e Andreotti viene definitivamente ridimensionato. Quel 23 maggio 1992 il tritolo non fa saltare solo un magistrato, sua moglie e la scorta.
Nessun commento
Posta un commento