Qualche settimana fa, a Macerata, una ragazza di diciotto anni è stata uccisa e fatta a pezzi e quattro nigeriani sono stati accusati di omicidio, vilipendio e occultamento di cadavere. Il giorno dopo, un ragazzo di ventotto anni, in passato candidato con la Lega Nord, è andato in giro per la stessa città sparando a sei nigeriani e concludendo la sua azione dimostrativa con un saluto romano e un tricolore legato sulle spalle. Ciò che si credeva fosse il gesto di un pazzo si è rivelato essere il piano lucido di un estremista di destra atto a vendicare la barbara uccisione della ragazza.
Un gesto di razzismo durante una campagna elettorale in cui la parola “immigrazione” ha monopolizzato il dibattito pubblico, scavalcando per importanza qualsiasi proposta in tema di economia, uguaglianza o diritti. Ne sono prova le posizioni ambigue assunte dai partiti dichiaratamente appartenenti all’alveo più progressista dell’arco parlamentare.
Il Ministro Minniti ha ricevuto il plauso da parte delle forze di destra per aver fatto diminuire il numero di migranti che arrivano in Italia. Il costo di questo successo, come spiegato da Gino Strada, è quello di “consegnare i migranti nelle mani dei torturatori ed assassini” delle carceri libiche, luoghi in cui l’Agenzia delle Nazioni Unite per la difesa dei diritti umani ha rilevato la violazione dei più basilari diritti dell’uomo per più di ventimila persone, con la compiacenza delle Istituzioni Europee. Un peso sulla coscienza che siamo disposti a sostenere per evitare che la situazione sfugga di mano. Del resto, finché le violazioni dei diritti umani avvengono lontano dai nostri occhi è più semplice digerirle. Mors tua, vita mea.
La richiesta del sindaco PD di Macerata di non partecipare al corteo antifascista organizzato nelle ore successive all’attentato, appello promosso dallo stesso Minniti (che ha addirittura proposto di vietare ufficialmente la manifestazione), si inserisce perfettamente in questo contesto di illogicità politica.
Illogicità a cui contribuisce sostanzialmente anche il Movimento 5 Stelle, seppur strenuo difensore dei valori della Costituzione, quando per bocca del suo candidato premier chiede di “restare in silenzio e non strumentalizzare quanto accaduto”, perché “tanto il fascismo è morto e sepolto”.
E, in effetti, all’interno dei due partiti che si contendono la guida del Paese si è cercato così tanto di non strumentalizzare da essersi dimenticati di andare a sincerarsi delle condizioni di quei poveri ragazzi la cui unica colpa è quella di essere nati nella parte sbagliata del mondo. A differenza di alcuni rappresentanti di Liberi e Uguali, di Potere al Popolo e del dissidente Ministro Orlando. Amnesie di governo.
Ma perché le istituzioni di un paese nato dalle ceneri di una guerra civile, teatro in piena guerra fredda di svariati tentativi di colpi di stato di matrice fascista, sembrano preferire far finta di niente invece di identificarsi con decisione sotto la bandiera antifascista?
Roberto Saviano, in un articolo scritto per il The Guardian, ha risposto a questa domanda con poche, ma eloquenti, parole: “Per non perdere i voti dell’elettorato xenofobo: questa è la loro paura, la conseguenza di un sistema politico vuoto”.
In una politica schizofrenica, al fascismo si è risposto con la criminalizzazione della sinistra radicale e dei centri sociali quali principali e più vigorosi sostenitori dell’antifascismo. Si è risposto con il grido di “più sicurezza” e con la promessa di assunzione di diecimila poliziotti, invece di concentrarsi su come educare i cittadini a non commettere gli errori del passato, invece di promettere di migliorare la gestione dell’accoglienza nel rispetto dei diritti dei migranti.
In questo contesto il ruolo dei media è stato di primo piano. Scrive a tal proposito Christian Raimo: “I giornali borghesi, di fronte al fascismo che avanza, si trincerano ogni giorno di più, dicendo che il popolo sbaglia, che non bisogna esagerare, che il fascismo è un allarme ingiustificato, che gli opposti estremisti no no gné gné, evocano il pericolo di uno scontro sociale che nonostante tutto non c'è, e non sanno riconoscere il fascismo nemmeno in uno con una zanna di lupo tatuata in fronte.
Quello che si ricorda sempre poco è che Mussolini arrivò al governo con la complicità di monarchici, nazionalisti e liberali ottusi che si erano persuasi che fosse meglio uno che aveva in mano le squadre d'azione che qualunque altra ipotesi.
Luigi Facta, il presidente del consiglio giolittiano nel 1922, prima fu sorpreso dalla marcia su Roma, poi accettò insieme al re di non proclamare lo stato d'assedio, e infine si accomodò tra quelli a cui il regime fascista non stava poi male e mantenne il suo posto da senatore”.
Questa implicita connivenza tra forze parlamentari e fascisti portò, tra le altre cose, alla delegittimazione degli intellettuali dell’epoca, Gramsci in testa, rei di non essersi asserviti alla causa del regime, classificati come dissidenti, usati come scudi per celare le malefatte del regime. Dinamica ricorrente nei periodi di crisi culturale è la banalizzazione del pensiero complesso ed articolato, attraverso cui prende forma la delegittimazione del ceto intellettuale. Un calderone in cui vengono gettati indistintamente le cause e gli effetti, le vittime e i colpevoli, per poi essere dati in pasto alle masse. Non riconoscere delle analogie tra il contesto passato e quello attuale significa lasciare terreno fertile alle forze reazionarie, che proprio dal clima di confusione ed insoddisfazione traggono linfa vitale (come testimoniato dal pauroso aumento degli episodi di razzismo e di violenza fascista).
Lo scopo di questo articolo è quello di rispondere alla domanda contenuta nel suo titolo.
Siamo tutti antifascisti? La risposta è no e le motivazioni non sono banali.
A parole tutti si dichiarano apertamente antifascisti e antiviolenti, ivi compresi i rappresentanti di alcune forze parlamentari nate in aperta continuità con quel pezzo di storia. Allo stesso modo in cui pezzi malati di classe dirigente si sono posti fintamente in discontinuità con la mafia. Dire di essere antifascista, esattamente come dire di essere contro la mafia, non ti rende né un antifascista, né un antimafioso.
La domanda da porsi quindi diventa “sapremmo riconoscere un fascista se ne vedessimo uno?”.
E’ ovvio che trovarsi davanti ad uno skinhead con la svastica tatuata sulla nuca renderebbe il compito più facile, così come sarebbe facile riconoscere un mafioso grazie ai baffi, la còppola ed il fucile in spalla. Ma quelli sono stereotipi utili più al cinema o al teatro, quasi come eredità della tradizione della commedia dell’arte.
Il fascismo e la mafia sono fluidi che assumono la forma del contenitore istituzionale che li ospita. Entrambi i circuiti si servono dell’instabilità e della debolezza culturale e usano la violenza per affermarsi. E, sia chiaro, spesso vestono in giacca e cravatta.
Per questo è difficile riconoscerli. Per questo, sempre più spesso, gli si concede spazio mediatico e diritto di parola.
Il non riconoscere l’indole violenta e prevaricatrice come loro approccio fondante, tollerarne l’intolleranza e giustificarne anche parzialmente le azioni vuol dire giocare ad un gioco in cui la probabilità di uscire sconfitti è altissima. La crisi economica e i suoi effetti di lungo periodo, la disintermediazione data da internet e la perenne divisione delle forze politiche anche nelle cause che dovrebbero essere comuni sono manifestazioni inequivocabili della condizione caotica dei nostri giorni. E bisognerebbe tenere presente che, nel caos, vige la legge del più forte.
Federico Filetti
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