05/11/25

Un aneddoto personale che forse può aiutare a capire la vittoria di Mamdani a New York

Una mattina di circa un mese fa un ragazzo ha bussato alla porta di casa mia. Apro, il ragazzo si presenta e mi porge qualche volantino. È uno degli eletti al municipio del quartiere di Londra nel quale vivo, Hackney. Un lontano passato industriale, vittima negli ultimi 15 anni di un rapido e dannoso processo di gentrificazione. Ci vivono tanti ragazzi e ragazze della mia età che lavorano perlopiù nell’industria creativa, giovani coppie con bambini, ma anche uno zoccolo di vecchi residenti da redditi e prospettive di vita non paragonabili a quelle dei nuovi abitanti. Fino ad una ventina di anni fa i prezzi in questa zona erano bassi perché lontana dal centro e generalmente collegata male dai trasporti pubblici. I prezzi bassi hanno quindi iniziato ad attrarre nuovi abitanti, hanno iniziato ad aprire caffetterie e ristoranti fighetti, le industrie chiuse (le classiche industrie inglesi di mattoni rossi e ciminiere altissime) sono state acquistate e riadibite a pub e locali con vista sul canale. E ovviamente i fondi d’investimento sono arrivati e hanno iniziato a comprare lotti di case facendo schizzare in alto i prezzi per chi vuole acquistare, e decidendo i prezzi di chi vuole affittare. Non è successo solo nel mio quartiere, e neanche solo a Londra. Succede a Parigi, a Milano, a Bologna, a Firenze, a Dublino, e ovviamente anche a New York. 

Dicevo, il ragazzo bussa alla mia porta e porgendomi il volantino si presenta in quanto eletto del Labour (il celebre partito socialdemocratico inglese, che come tutti i partiti social democratici in Europa dagli anni ’90 ha sposato la causa del capitalismo a scapito delle classi popolari) nel mio municipio. Mi chiede cosa il suo partito, e lui in quanto eletto, può fare per me. Gli spiego che da ottobre il mio affitto è aumentato di 30 sterline al mese (360 sterline all’anno per me, 1080 sterline all’anno in totale per i tre inquilini che siamo). Gli spiego che quando sono arrivato a Londra tre anni fa l’affitto e le spese impattavano dal 35 al 40% del mio stipendio, mentre adesso arrivo quasi al 50%. Lo guardo negli occhi per testarne le reazioni. La comunicazione non verbale dice spesso molto di più di quella verbale. Aveva la risposta pronta: ricambia lo sguardo e mi spiega che il municipio offre supporto per gli affittuari se pensano che i proprietari stiano commettendo ‘abusi’. Gli spiego che no, non c’è nessuna condotta scorretta da parte dei proprietari – che io tra l’altro non so neanche chi siano, perché è un fondo d’investimento e la casa è gestita da un’agenzia con la quale mi interfaccio per tutte le eventualità. Gli spiego che la regolamentazione del mercato immobiliare di Londra permette di rinnovare i contratti di affitto di anno in anno, e alla scadenza puntualmente arriva un rincaro. “Se lasci la casa la affitto a 800 sterline in più, in dieci minuti”, ti dicono. Ed è vero. Aggiungo che quindi è un problema di legislazione, di quale idea si ha del presente e del futuro dei cittadini del mio quartiere in particolare, ma di Londra in generale. Gli dico che un partito non dico di sinistra, ma almeno di centro sinistra dovrebbe porsele certe domande. Comunicazione non verbale. Il ragazzo abbassa lo sguardo e sorride. “I know, I know”, lo so, lo so, mi dice tenendo bassa la testa. “Ma il Labour di Hackney non è il Labour nazionale”. Ci tiene a rimarcare la distanza tra la base e il vertice del partito. 

Mi chiede cos’altro può fare per me e per i cittadini di Hackney, se penso ci sia qualche altra priorità. Gli dico che il quartiere è pieno di giovani coppie con figli piccoli. Che un mio amico e collega che vive vicino casa mi ha detto che un figlio ad Hackney costa 1500/2000 sterline al mese, e lui ne ha due. Gran parte di queste 2000 sterline se ne vanno tra nido e piscina. E che mentre qualcuno ha il budget per poterselo permettere, la maggior parte delle persone questo budget non ce l’ha. Io non ce l’avrei neanche lontanamente, per esempio. Poi iniziamo a parlare di trasporto pubblico. Gli spiego che il treno passa una volta ogni 15 minuti, che nelle ore di punta è impossibile salirci perché è pieno a scoppiare, e che vicino ci sono solo due autobus che di giorno passano ogni 10 minuti (se non c’è traffico), e di sera o nel weekend ogni 15/20. Di conseguenza, andare a lavoro è un’odissea che dura 50 minuti ad andare e altri 50 a tornare quando va bene, e che comunque la sera la Transport for London – l’azienda di trasporti locale – mi fa pagare dalle 6 alle 8 sterline per i due tragitti. E io sono un privilegiato, visto che lavoro due giorni alla settimana da casa e quindi posso risparmiare soldi e sanità mentale. Lo osservo di nuovo. Scuote la testa sussurrando “I know, I know”, lo so, lo so. 

Lo ringrazio e mi scuso di avergli rubato del tempo prezioso. Con la famosa cordialità inglese mi ringrazia anche lui e mi offre la sua disponibilità per qualsiasi evenienza, mi parla brevemente degli altri eletti al municipio nel suo stesso partito e mi ricorda che il Labour di Hackney non è lo stesso Labour che guida la nazione. Ci tiene a marcare le distanze. Ci salutiamo e chiudo la porta. 

Nei giorni successivi ho pensato un po’ a questa conversazione. Ridacchiando per la rottura di palle che si è dovuto sorbire sto ragazzo, che se avesse suonato al campanello accanto si sarebbe potuto risparmiare. Che poi non posso neanche votare, a maggior ragione visto l’inasprimento delle regole sulla cittadinanza che il suo partito ha proposto. Piacevolmente sorpreso di vedere che c’è gente eletta che ancora va a bussare alle porte dei cittadini rischiando i cazziatoni, invece di delegare le proprie relazioni pubbliche ai social. E infine anche incuriosito da questa sua netta e ripetuta presa di distanze tra il partito a livello locale, attento e vicino alle esigenze dei cittadini, e quello nazionale, che invece continua a inseguire la destra sul terreno della destra (per cui ovviamente spianando il terreno alla destra, che ad una certa se li mangerà come successo in Italia). Poi non ci ho pensato più fino a stamattina, quando bevendo il caffè ho letto che Zohran Mamdani, il candidato democratico indipendente, ha battuto quel vecchio trombone di Cuomo ed è diventato sindaco di New York. 

Negli ultimi giorni avevamo visto un disperato tentativo dell’élite della città di sostenere Cuomo. Si è scomodato anche Trump, presidente repubblicano e noto ‘palazzinaro’ di New York dicendo che “un cattivo democratico come Cuomo è meglio di un comunista (non un social democratico, ma un comunista) come Mamdani”. Mamdani ha vinto con una piattaforma politica chiara: più case popolari e controlli ai prezzi degli affitti per gestire la crisi abitativa, asili nido e trasporti pubblici gratuiti da finanziare tassando i ricconi di New York. Una città a misura dei suoi cittadini, e non più a misura di pochi ricchissimi speculatori senza volto né nome. Come il mio nuovo amico del Labour di Hackney, anche Mamdani si è fatto conoscere nei quartieri andando a bussare a casa delle persone. Come il mio nuovo amico del Labour di Hackney, anche lui è perfettamente consapevole dei problemi di chi vive nelle grandi città senza essere ricco, e anche lui ha marcato con forza la distanza fra se stesso e la sua base dalle gerarchie del partito. Mamdani ha usato questa piattaforma politica e ci ha vinto un’elezione insperata ed importante. Speriamo che il mio nuovo amico del Labour di Hackney smetta di guardare a terra sconfitto e prenda coscienza che la gente normale, quella che lavora, sarebbe felice di appoggiare una piattaforma politica come questa. E da buon emigrato quale sono, spero che succeda lo stesso in Italia.

11/05/25

È VERO CHE DA 30 ANNI LA SINISTRA HA SMESSO DI PROTEGGERE I LAVORATORI (LA DESTRA NON LO HA MAI FATTO), 𝐌𝐀 𝐐𝐔𝐄𝐒𝐓𝐎 𝐑𝐄𝐅𝐄𝐑𝐄𝐍𝐃𝐔𝐌 𝐀𝐈𝐔𝐓𝐀 𝐌𝐎𝐋𝐓𝐎 𝐈 𝐋𝐀𝐕𝐎𝐑𝐀𝐓𝐎𝐑𝐈! ANDATE A VOTARE!

Ho passato gli ultimi dieci anni della mia vita a studiare il mercato del lavoro italiano. L’ho studiato quando ero studente universitario e mi chiedevo perché l’Italia fosse l’unico paese in Europa a non avere una forma di reddito di cittadinanza per aiutare chi sta peggio, e ci ho poi dedicato una grossa parte della tesi di dottorato e diversi articoli scientifici. Ne ho scritto molte volte anche qui e fuori di qui. 

Il mercato del lavoro italiano non l’ho solo studiato: l’ho anche vissuto sulla mia pelle e su quella di chi mi sta intorno. Negli ultimi anni ho provato più volte a rientrare in Italia ma ho trovato, almeno per adesso, le porte delle università italiane chiuse. I soldi alla ricerca diminuiscono da anni e l’ultima riforma dell’università ha peggiorato le cose. Molti amici e molte amiche (della mia età, più giovani o più anziani non importa) sono costretti ad andare via da dove il lavoro non c’è, e muoversi dove il lavoro c’è. Solo che dove il lavoro c’è la vita costa un sacco e gli stipendi sono così bassi che si fa fatica. Non parliamo poi di chi resta dove il lavoro non c’è: lavoretti saltuari, contratti a chiamata o a cottimo, contratti rinnovati di settimana in settimana e comunque 800€ al mese in busta paga e quei 200/300 fuori busta per chi è fortunato. 𝐏𝐞𝐫 𝐜𝐡𝐢 𝐞̀ 𝐟𝐨𝐫𝐭𝐮𝐧𝐚𝐭𝐨! 

I responsabili di questo disastro sono tanti, e sono di destra tanto quanto di sinistra. Negli anni ’90, si erano tutti convinti che dando più potere ai datori di lavoro e meno ai lavoratori la disoccupazione sarebbe diminuita e tutti saremmo stati meglio. Ne era convinto il centro sinistra di Prodi, il centro destra di Berlusconi, i governi tecnici delle misure “lacrime e sangue” durante la crisi, Letta e Renzi, Draghi e Giorgia Meloni. Hanno tutti servito lo stesso padrone (il datore di lavoro), rafforzandolo a scapito di chi la mattina si alza e va a lavorare per due spicci (il lavoratore). Conte è stato un’anomalia perché per la prima volta in 30 anni ha aiutato i lavoratori molto più dei datori di lavoro (con il Decreto Dignità e il Reddito di Cittadinanza prima, e con il blocco dei licenziamenti durante il covid), e infatti lo hanno fatto fuori alla prima occasione utile. 

𝐋𝐚 𝐬𝐢𝐧𝐢𝐬𝐭𝐫𝐚 𝐡𝐚 𝐭𝐫𝐚𝐝𝐢𝐭𝐨 𝐢 𝐥𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 e di conseguenza ha iniziato a vincere nei centri città e a perdere nelle periferie. La destra al contrario ha iniziato a perdere nei centri città e a vincere nelle periferie. 𝐌𝐚 𝐥𝐚 𝐝𝐞𝐬𝐭𝐫𝐚 𝐢 𝐥𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐧𝐨𝐧 𝐥𝐢 𝐡𝐚 𝐦𝐚𝐢 𝐩𝐫𝐨𝐭𝐞𝐭𝐭𝐢, 𝐞 𝐪𝐮𝐚𝐧𝐝𝐨 𝐡𝐚 𝐩𝐨𝐭𝐮𝐭𝐨 𝐥𝐢 𝐡𝐚 𝐬𝐞𝐦𝐩𝐫𝐞 𝐮𝐦𝐢𝐥𝐢𝐚𝐭𝐢. Ne è prova l’atteggiamento del Governo Meloni sul salario minimo (un “no” secco), sul reddito di cittadinanza (“i divanisti nullafacenti”) e le parole del Presidente del Senato sul referendum (“spingeremo la gente a non andare a votare”). Potrei fare molti altri esempi. 

Negli ultimi 5 anni sono successe tante cose nel mondo. Talmente tante che 𝐚𝐧𝐜𝐡𝐞 𝐢𝐥 𝐏𝐝 𝐬𝐢 𝐞̀ 𝐚𝐜𝐜𝐨𝐫𝐭𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐜𝐨𝐧𝐭𝐫𝐚𝐭𝐭𝐢 𝐩𝐫𝐞𝐜𝐚𝐫𝐢 𝐞 𝐩𝐚𝐠𝐡𝐞 𝐝𝐚 𝐟𝐚𝐦𝐞 𝐧𝐨𝐧 𝐬𝐨𝐧𝐨 𝐮𝐧𝐚 𝐛𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐜𝐨𝐬𝐚. 𝐀𝐧𝐜𝐡𝐞 𝐢𝐥 𝐬𝐢𝐧𝐝𝐚𝐜𝐚𝐭𝐨! 𝐌𝐢𝐫𝐚𝐜𝐨𝐥𝐨! La segreteria Schlein e le pressioni da sinistra dei 5 Stelle hanno contribuito a spostare il Pd più a sinistra e a far essere il sindacato di nuovo più conflittuale. Ed è un bene. Non so se durerà dopo Schlein, probabilmente no, ma 𝐪𝐮𝐞𝐬𝐭𝐨 𝐫𝐞𝐟𝐞𝐫𝐞𝐧𝐝𝐮𝐦 𝐞̀ 𝐥𝐚 𝐩𝐫𝐢𝐦𝐚 𝐜𝐨𝐬𝐚 𝐟𝐚𝐭𝐭𝐚 𝐩𝐞𝐫 𝐢 𝐥𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 𝐝𝐚 𝐦𝐨𝐥𝐭𝐨 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐨. Andate a votare e 𝐯𝐨𝐭𝐚𝐭𝐞 𝐜𝐨𝐧𝐭𝐫𝐨 𝐢𝐥 𝐉𝐨𝐛𝐬 𝐀𝐜𝐭 e tutte quelle norme che da destra a sinistra hanno precarizzato il lavoro (quesiti 1, 2 e 3), 𝐯𝐨𝐭𝐚𝐭𝐞 𝐩𝐞𝐫 𝐥𝐚 𝐬𝐢𝐜𝐮𝐫𝐞𝐳𝐳𝐚 𝐝𝐞𝐢 𝐥𝐚𝐯𝐨𝐫𝐚𝐭𝐨𝐫𝐢 in appalto e sub-appalto (quesito 4) e 𝐯𝐨𝐭𝐚𝐭𝐞 𝐩𝐞𝐫 𝐚𝐯𝐞𝐫𝐞 𝐮𝐧𝐚 𝐥𝐞𝐠𝐠𝐞 𝐬𝐮𝐥𝐥𝐚 𝐜𝐢𝐭𝐭𝐚𝐝𝐢𝐧𝐚𝐧𝐳𝐚 𝐝𝐞𝐠𝐧𝐚 e simile a quella di molti altri paesi europei (quesito 5).

11/03/24

QUALCHE PENSIERO SULLE ULTIME DUE ELEZIONI REGIONALI E UNA RIFLESSIONE SU SINISTRA E AREE INTERNE. SENZA PRETESA DI VERITÀ.

Sardegna e Abruzzo non sono per niente lontane. In Sardegna la destra ha perso per il voto disgiunto che ha penalizzato un candidato scarso e poco amato, ma in entrambe le regioni le liste sono andate molto bene e molto meglio di quelle del Campo Largo. 

Prendendo un po’ di distanza della retorica del “noi contro di loro”, delle matite contro i manganelli, del berlusconianissimo “sono e resteranno sempre dei comunisti” pronunciato durante il comizio dal Ministro Sangiuliano, il dato più lampante resta questo. Le liste di destra vincono perché sono presenti sul territorio, e sono ancora più presenti nelle aree interne. Le controllano, le battono palmo a palmo, ne conoscono gli umori, le ansie e le frustrazioni. Entrano in empatia con le persone, creano clientele, rapporti di prossimità, si fanno conoscere e riconoscere. E questo lavoro lento e costante si traduce poi in voto. E infatti nei centri più grandi, dove questa prossimità manca e quindi dove il voto di opinione è più probabile, la destra fa più fatica. Anche perché nelle grandi città ci sono più giovani e le persone hanno titoli di studio e redditi tendenzialmente più elevati. Fattori che influenzano sensibilmente le dinamiche elettorali verso partiti meno conservatori. 

Ma quindi, perché un partito grosso e storicamente strutturato come il PD perde dove la gente sta peggio? La famosa storia del partito che nel “borghesizzarsi” ha perso il contatto con gli ultimi è sicuramente una parte di verità, ma secondo me non è tutta la verità. E allora la domanda diventa: perché il PD perde nei luoghi in cui è possibile creare un rapporto di prossimità con l’elettorato? Nei luoghi in cui è possibile conoscersi, riconoscersi, parlarsi da pari a pari? 

La difficoltà del Movimento 5 Stelle di affermarsi a livello locale, per quanto paradossale visto che è un movimento nato dai Meetup cittadini, la conosciamo. Dall’ingresso in Parlamento nel 2013 fino all’inizio della segreteria Conte, il movimento ha cercato di massimizzare la sua base elettorale smarcandosi dalla dicotomia destra-sinistra. Per questo, ha imbarcato un sacco di gente di destra che poi è ritornata all’ovile quando il Movimento si è spostato a sinistra (e la destra dura ha iniziato a contare di più). Questa transumanza ha rallentato la creazione di una classe dirigente fuori da Roma. 

E il PD? Io non ho un’esperienza di militanza alle spalle, e quindi mi viene difficile rintracciare con contezza le cause di questo scollamento. Mi limito a riflettere basandomi su ciò che ho conosciuto, sui ricordi della militanza di mio padre all’inizio dei 2000 nell’Ulivo prima e nel PD poi, sulle testimonianze degli amici con una storia decennale di militanza. Mi ricordo di discussioni, di riunioni, di eventi, spesso e non solo in periodo elettorale. Quando è successo? Quando è iniziato questo processo di destrutturazione del partito, che da partito di prossimità è diventato un comitato elettorale che si attiva sei mesi prima delle elezioni per poi disfarsi dopo la sconfitta? Quand’è che si è passati dal paradigma della militanza a quello della fedeltà verso il capobastone locale, feudatario di questo o quel segretario? Da Renzi? Prima? 

E proprio perché voglio parlare di ciò che conosco, non posso far altro che paragonare il risultato dell’Abruzzo con quello che è successo nelle due ultime elezioni comunali nella mia città, Piazza Armerina. Candidati progressisti guidati dal PD. Bravi, che hanno fatto opposizione con competenza, che hanno studiato un sacco di carte e che sono stati capaci di mettere attorno ad un tavolo una squadra di persone altrettanto brave e perbene. Perché hanno perso entrambe le elezioni contro la destra? E’ una domanda tutto fuorché retorica, ma qualcosa mi dice che la ragione debba essere cercata nell’assenza di struttura. Un PD che ha supportato, a mio avviso, poco e male la campagna elettorale (non mandando neanche un nome grosso da Roma, mentre i 5 Stelle mandavano Fico), che si è riunito soltanto per le elezioni, sfaldandosi dopo e lasciando soli e senza supporto i loro consiglieri eletti. Il risultato è che la destra, che il territorio lo controlla molto e da molto tempo, vince con percentuali bulgare anche quando si presenta divisa. Sono andato a controllare i risultati delle ultime comunali, e insieme destra e centro-destra hanno preso il 57% dei voti al primo turno (32.3% la coalizione del sindaco riconfermato, 21.7 quella del suo contendente). 

Ora, so perfettamente quanto sia rischioso trarre conclusioni generali da situazioni locali e contingenti. E’ però anche vero che la Sicilia, l’Abruzzo e la Sardegna soffrono tutte e tre degli stessi problemi: un tessuto economico povero ed impoverito dalla sempre più grande concentrazione del capitale nelle regioni e città del nord, la denatalità e l’invecchiamento della popolazione (con gli anziani che votano più a destra dei giovani), l’emigrazione, i tagli al welfare, l’assenza di investimenti, eccetera. Sono quindi portato a pensare che questi simili risultati elettorali siano in qualche modo causati dall’assenza del partito ancor prima che dalle preferenze dell’elettorato rispetto ai programmi. 

Che implicazioni ha tutto questo sul cosiddetto “Campo largo”? La prima è che se il PD e i 5 Stelle non decideranno di strutturarsi a livello locale continueranno a perdere e i loro leader verranno rimpiazzati da chi alle loro spalle sta già affilando i coltelli per prenderne il posto (ovvero, i “riformisti” dentro il PD e la componente di destra nei 5 Stelle). Il problema è che queste componenti vanno spesso a braccetto con i post-fascisti – sia in politica economica, che in politica interna ed estera – e tra la copia e l’originale gli elettori scelgono sempre l’originale. Questo significherebbe una cristallizzazione del consenso per la destra-destra in un momento in cui guadagnano terreno in tutta Europa, rischiando di aprire un ciclo politico ventennale (corsi e ricorsi storici). 

Si dirà, “eh, ma Schlein è arrivata da poco, non possiamo chiederle di cambiare un partito in un anno”. Vero, e lo stesso è valido per Conte. Radicare un partito sul territorio richiede un sacco di tempo e un sacco di risorse, sia in termini finanziari che umani. Ri-radicarlo, forse, ancora di più. Ma è anche vero che in un anno di segreteria da questo fronte si è visto poco se non niente. PD e 5 Stelle fino a qualche tempo fa avevano il problema di non essere di sinistra. Ora che hanno capito l’importanza dell’essere di sinistra, soprattutto in questo periodo storico, il problema diventa farlo capire agli elettori standogli vicino. Le elezioni in Sardegna ed Abruzzo ci insegnano che si vince solo così.

ff

03/07/23

Ieri sera non riuscivo a prendere sonno, apro YouTube e il primo tra i video suggeriti era questo reperto archeologico pazzesco. Una tribuna elettorale della campagna per le elezioni politiche del 1996. 
Da un lato Berlusconi e gli uomini del suo “Polo”, tra cui i giovanissimi Tremonti, Fini e Casini. Lui carismatico, sul pezzo, con una mimica facciale potentissima. All’epoca ancora senza la chirurgia estetica che in seguito gli farà perdere la mobilità dei muscoli del viso. Quella mimica facciale sfrontata ed ammaliante, mi sono detto, deve per forza essere stata uno dei segreti della sua longevità politica (a parte il monopolio di tv e giornali, e la proprietà di un club di calcio molto vincente…), e forse non è un caso che la sua parabola discendente sia iniziata insieme alla progressiva paralisi della faccia. 

Dall’altro Prodi e il suo “Ulivo”, c’era anche D’Alema che oggi ha solo qualche capello bianco in più. Prodi calmo, rassicurante, bellissimi i suoi occhiali anni ’80. L’amico bravo, quello che ha studiato, che spesso riesce a rispondere a tono evidenziando le contraddizioni più macroscopiche del Berlusconi imprenditore/politico. Ma in definitiva un po’ grigio, senza pathos, e noioso da ascoltare. 

Conduce una giovanissima Lucia Annunziata, che riesce ad arbitrare questo combattimento tra galli con la cazzimma di una giornalista già esperta. 

I temi del dibattito, in grande sintesi. La giustizia, con la magistratura politicizzata e da s-politicizzare. Il conflitto d’interessi, che non esiste perché “col mio ingresso in politica le mie aziende ci hanno rimesso”. La Rai, troppo in mano, cito testualmente, “alle sinistre” e che quindi va riequilibrata. L’economia, e il debito pubblico troppo alto a causa della spesa pubblica improduttiva e di un welfare troppo assistenzialista. Soluzione, dare solo a chi ha veramente bisogno e il resto darlo alle aziende, vere creatrici di lavoro e uniche in grado di far diminuire la disoccupazione. La parte più interessante quella sulle privatizzazioni, con Prodi (uno di “sinistra”) che rivendica il successo della privatizzazione dell’IRI, la più grande azienda pubblica italiana, e Berlusconi (all’epoca profeta del liberalismo) che accusa Prodi di averlo dismesso facendo aumentare la disoccupazione. 

Questo video da solo mette in evidenza le radici di un’egemonia culturale, quella di Berlusconi e del berlusconismo, che è sopravvissuta alla sua parabola politica e anche alla sua morte e spiega anche il fallimento ideologico e leaderistico delle varie mutazioni della sinistra. Ma soprattutto ho pensato che se chiedessimo ad un’intelligenza artificiale di sostituire le facce di Berlusconi, Prodi e le comparse dietro di loro con quelle di Meloni e Schlein, nessuno se ne accorgerebbe perché nel dibattito politico di oggi si parla esattamente delle stesse cose e nello stesso modo. Insomma, sto video di ormai quasi 30 anni mostra chiaramente che non siamo mai veramente usciti dagli anni ’90, o, se ne siamo usciti, ne siamo usciti malissimo.

05/03/23

MAJORANA-CASCINO: UN APPELLO ALLA COMUNITÀ E AI GENITORI DEI RAGAZZI DI PIAZZA ARMERINA

Nell’ultima settimana Piazza Armerina è stata alla ribalta della cronaca politica nazionale. Degli agenti in borghese, su segnalazione, entrano al Majorana-Cascino durante un’assemblea d’istituto autorizzata dalla preside e identificano i rappresentanti d'istituto che discutevano in videoconferenza con l’associazione ‘Meglio Legale’. 
 Si può o no essere d’accordo sul tema dell’assemblea, è legittimo. Ognuno è libero di pensarla come vuole, ed è necessario garantire pari dignità a tutte le opinioni. Certo, l’associazione ‘Meglio Legale’ non è un branco di hippie rimasti fermi agli anni ‘70, anzi è un’associazione che mette assieme esperti che studiano gli effetti negativi delle politiche proibizioniste. Forniscono una prospettiva alternativa al ‘le droghe fanno tutte male allo stesso modo’ che è imposta da politica e media, soprattutto conservatori. E’ un dibattito vivo e presente in molte altre parti del mondo e che non crea ormai più scandalo. 

Dicevo, si può essere o no d’accordo sul tema ma il mio punto è un altro. A Piazza Armerina, come in tanti altri posti ai margini del mondo civilizzato, ci sono poche associazioni e lo spazio di parola per i giovani è quasi inesistente. La scuola, a cui vengono delegate tutte le responsabilità che genitori e politica non vogliono o riescono ad assumersi, diventa l’unico spazio in cui discutere. “Gli studenti sono fiaccole da accendere con spunti di riflessione morale e sociale, e non solo vasi da riempire con nozioni accademiche”, dice giustamente nel suo comunicato la Preside del Majorana-Cascino Lidia Di Gangi. Quando lo si è fatto, quando si è provato ad accendere questa fiaccola, lo Stato (rappresentato da quei poliziotti in borghese) è entrato a scuola e ha intimorito gli studenti. Così magari la prossima volta ci pensano due volte prima di prendere iniziativa. 

Per questo motivo siamo finiti nelle prime pagine di tutti i giornali nazionali, e siamo stati argomento di discussione in televisione. Tutti hanno parlato di noi e in molti hanno preso posizione. In molti, ma non tutti. E’ passata quasi una settimana, ma né il Sindaco di Piazza Armerina né nessuno della sua amministrazione ha detto una parola su quello che è successo. Un mutismo che ha colpito la politica locale come il morbo nel libro Cecità di Saramago, e che appare sospetto soprattutto considerando lo stile comunicativo martellante cui la stessa amministrazione ha abituato la cittadinanza negli anni. Nel frattempo è arrivata la dichiarazione della Deputata dello stesso partito del sindaco (Fratelli d’Italia), il cui merito è contestabile su talmente tanti livelli che è anche superfluo discuterne. Viene il dubbio che i silenzi del sindaco e dell’amministrazione siano un assenso alle parole della parlamentare, che sarebbe grave visto il livello pessimo delle argomentazioni di quel comunicato. 

Il mutismo selettivo ha colpito però anche molti dei futuri candidati sindaco e molti altri politici di spicco con i relativi partiti, anche loro generalmente propensi a commentare qualsiasi fatto cittadino. Le uniche eccezioni sono i vertici cittadini, provinciali e nazionali del PD, che si sono schierati compatti in difesa del diritto di libera assemblea degli studenti. Riflettendo su questi silenzi sospetti, mi è subito venuta in mente la lettera della preside del Da Vinci di Firenze: “Il fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate da migliaia di persone. È nato ai bordi di un marciapiede qualunque, con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a sé stessa da passanti indifferenti”. Ecco, oggi mi sembra di vedere nella gran parte della classe dirigente e politica cittadina quel passante che è rimasto indifferente ad un abuso di potere, girandosi dall’altro lato. Da sociologo, pensavo a come questa indifferenza venga nella maggior parte dei casi da uomini (nel senso di maschi) di mezza età, mentre assistiamo ad una sempre più grande esposizione delle donne: i casi delle due presidi, Annalisa Savino del Da Vinci di Firenze e Lidia Di Gangi del Majorana-Cascino di Piazza Armerina, sono emblematici. Questo mi lascia dedurre che saranno soprattutto le donne a guidare la lotta in difesa dei diritti (sociali e civili) in Italia nel futuro, e ne sono contento. 

Come ho scritto sopra, negli anni i giovani a Piazza Armerina sono stati relegati ai margini della comunità. Non solo, sono stati spesso criminalizzati e raccontati come scansafatiche che passano le loro giornate a sfasciare fermate del bus e campetti di calcetto. I fautori di questa narrazione sono spesso, manco a dirlo, uomini (nel senso di maschi) di mezza età col culo al caldo. Uomini che hanno vissuto in un’epoca in cui precarietà, emarginazione, declino demografico, crisi economica ed ambientale, erano molto meno rilevanti di quanto non lo siano adesso. Dall’alto delle loro posizioni di privilegio, l’élite cittadina (a tutti gli effetti una gerontocrazia) fa sfoggio di tutto il suo paternalismo e sfoga le proprie pulsioni sui giovani, per qualche like in più. 

Le politiche giovanili a Piazza Armerina non esistono, sparite dal dibattito da almeno 10 anni. Ai ragazzi con meno di 18 anni non viene proposto niente (tanto non possono votare, mi verrebbe da dire), mentre quelli con più di 18 partono quasi tutti (e quindi non possono votare neanche loro). Ho scritto qualche settimana fa che la provincia di Enna è quella con il tasso più alto di emigrazione all’estero, senza considerare chi emigra in altre parti d’Italia. Ai pochi giovani che restano gli si offre qualche mancia elettorale per tenerseli buoni, o li si continua ad ignorare. Chiedendo poi il voto ai loro genitori. 

Questo testo è soprattutto un appello alla comunità e ai genitori dei ragazzi di Piazza Armerina. Ricordatevi sempre, e non solo quando andrete a votare, di chi ignora i giovani, di chi li criminalizza e di chi tace quando su di loro vengono compiuti abusi. Di chi, per usare le parole della preside del Da Vinci di Firenze, resta indifferente perché gli conviene. Ricordatevene sempre.

ff

11/02/23


Ieri a Piazza Armerina si è iniziato a parlare di elezioni. Curiosamente, oggi escono queste statistiche de Il Sole 24 Ore con dati ISTAT e Ministero dell'Interno: la provincia di Enna è quella con più giovani sotto i 30 anni iscritti all'anagrafe degli italiani all'estero (in relazione al numero di abitanti). 
Nei prossimi mesi si parlerà di verde pubblico, di strade, di acqua e immondizia, di turismo e navi da crociera. I nostri candidati ci spiegheranno le loro strategie per gestire l'ordinario, dipingendocelo come straordinario. E come tutte le elezioni prima di questa si parlerà di emigrazione poco e in maniera astratta, come una variabile tra molte altre più importanti. 

Ma i numeri non mentono, ed i dati qui sotto dicono chiaramente che il vero problema di questo territorio decaduto è che i giovani se ne vanno quasi tutti. E questi sono solo i dati relativi agli iscritti AIRE, e che quindi non includono chi va via ma resta in Italia. Personalmente, a Piazza Armerina non conosco una famiglia che non abbia almeno uno dei propri figli fuori. Questo è un costo economico enorme per il presente (forza lavoro più o meno qualificata che va via e che difficilmente tornerà), e un costo per la tenuta sociale del territorio nel futuro: chi ci aiuterà quando decideremo di fare dei figli? E chi aiuterà i nostri genitori quando (il più tardi possibile) non saranno più autosufficienti? 

A queste domande i nostri aspiranti sindaco dovrebbero rispondere. Ma difficilmente risponderanno, perché non hanno le capacità politiche e cognitive per capire la gravità del problema. E Piazza Armerina, e la provincia di Enna, e questo territorio devastato da una guerra che non si vede continuerà ad affondare sempre di più.

ff

26/09/22

Due cose due su questi risultati

Il M5S è l’unico partito a vocazione popolare dell’arco parlamentare. Hanno fatto una campagna elettorale seria, comunicata bene e proposto un’agenda di sinistra: dal salario minimo legale, alla riduzione del tempo di lavoro, alle disuguaglianze di genere fino alla questione ambientale. Durante l’ultima legislatura hanno aumentato per la prima volta dopo (almeno) 30 anni la protezione sociale con il Reddito di Cittadinanza e il Decreto dignità, e gestito in modo umano la pandemia. Per questo il successo al sud, ormai totalmente desertificato e senza prospettive, è da leggere come voto di classe. Chi parla di voto di scambio o è in malafede o, più semplicemente, non capisce niente di politica (o tutt’e due). 

Letta è un brav’uomo, un bravo professore universitario ma un pessimo politico. Ce n’eravamo accorti dieci anni fa quando era presidente del consiglio, e ne abbiamo avuto conferma nell’ultimo anno e mezzo. La strategia di cementificare la base elettorale composta dalla “borghesia riflessiva” (termine trovato su Twitter e che mi piace molto) dei centri città invece di andare a cercare i voti degli indecisi è stata un fallimento. Così come è stato un fallimento sposare il progetto di “Agenda Draghi”, che era, ed è, il tentativo delle classi dominanti (e del nord) di accaparrarsi i soldi del PNRR. Questo ha contribuito all’allontanamento dei 5 Stelle, vanificando gli sforzi fatti durante il Conte II, e dunque alla vittoria della destra postfascista di cui Letta e la sua classe dirigente sono i soli responsabili. Ha perso su tutta la linea e si dimetterà presto (spero); sarebbe bello fosse sostituito da Schlein, ma più probabilmente arriverà uno tipo Bonaccini e il PD farà la fine dei socialisti in Francia. 

Detto questo, i fascisti hanno vinto e a noi toccherà combatterli come nel secolo scorso, dal basso, con tutti i mezzi a nostra disposizione. A partire dalle idee.

ff

06/01/22

Piazza Armerina non appare nella lista dei comuni beneficiari dei fondi stanziati dal Ministero dell’Interno per interventi di rigenerazione urbana previsti dal PNRR. 
A segnalarlo il consigliere d’opposizione Mauro Di Carlo. Nella vicina Enna, secondo i calcoli dello stesso consigliere, arriveranno quasi 20milioni. Il giorno dopo la diffusione della notizia, con toni trionfalistici, l’Amministrazione Comunale comunica l’arrivo di 3milioni di Euro dalla Regione - guidata dal leader dello stesso partito del Sindaco - per il rifacimento di un’ex cartiera (bene). 

Nello stesso video, viene spiegato che il mancato accesso ai fondi del PNRR è dovuto alla precaria situazione economica dell’Ente, che per questo non può accedere al denaro. Nel giro di qualche ora, lo stesso consigliere d’opposizione dimostra, contraddicendo il Governo della città, che altri 10 comuni in dissesto, in Sicilia, sono risultati beneficiari. 

Questa è la notizia più calda di questi primi giorni del 2022, pandemia a parte. 

Piazza Armerina versa in uno stato di involuzione ormai da quasi un decennio. È una condizione lampante da notare per chi come me torna in città due volte all’anno. Ad ogni ritorno, ai problemi già esistenti se ne aggiungono sempre di nuovi senza che i vecchi siano risolti. La mancanza di soldi, la denatalità, lo sfaldamento del tessuto sociale ed economico, l'emigrazione, sono l’effetto di almeno dieci anni di scelte politiche miopi. Scelte dettate da una evidente incapacità amministrativa, gestionale e politica che ha accomunato i nostri rappresentanti, a quasi tutti i livelli, nell’ultimo decennio. 

Il paragone con Troina è deprimente. Piazza e Troina sono due comunità con condizioni di partenza simili: una è stata amministrata bene negli anni e adesso raccoglie i frutti della propria rinascita, l’altra è stata relegata alla marginalità. 

Senza dilungarmi troppo. Io non lo so chi abbia ragione tra il consigliere Di Carlo e l’Amministrazione, o se la situazione sia in realtà più complessa di come sia stata raccontata dalle due parti. Non ho il tempo per studiarmi le carte, e probabilmente neanche le competenze. 

Quello che pare chiaro è che ci siano dei comuni in dissesto che hanno avuto accesso a quei soldi, e che quindi la spiegazione del sindaco sia, almeno in parte, inesatta. In ogni caso, da qualche giorno una fetta consistente della popolazione di Piazza Armerina vive col dubbio che non sia stato fatto tutto il possibile per arrivare a riceverli, quei soldi. Creando un gravissimo precedente, se consideriamo che col PNRR soldi possono arrivarne un bel po'. Con tutte le conseguenze che questo ha e avrà sull’economia del territorio, sui giovani, sulle donne. 

L’Amministrazione ha per questo il dovere morale e politico di dare spiegazioni alla cittadinanza e non tramite un video senza contraddittorio sui social. Le aule istituzionali servono a questo, del resto. Se le accuse dell’opposizione fossero confermate, e se Piazza Armerina fosse un posto normale, l’Amministrazione dovrebbe dimettersi en masse il minuto dopo. 

ff

10/12/21

Il direttore de Il Foglio, Claudio Cerasa, sullo sciopero generale proclamato da CGIL e UIL il 16 dicembre dice che "Un sindacato che si permette di far perdere un solo giorno di scuola ai nostri figli, in un paese che di giorni di scuola ne ha persi fin troppi durante la pandemia, merita di essere considerato per ciò che è: impresentabile sul presente, indifferente sul futuro". 
Mi è venuta in mente questa scena dei Simpson e ho riso per quanto simili siano l'affermazione del direttore e l'atteggiamento della moglie del reverendo Lovejoy. Fintamente melodrammatici e buonisti entrambi. Ma in realtà profondamente reazionari. 

Se c'è una cosa su cui tutta la letteratura scientifica converge è sul ruolo che i sindacati hanno giocato nell'aumentare la protezione del lavoro e dei lavoratori. Paesi con sindacati storicamente più forti sono anche quelli con un welfare state più universale e generoso. I sindacati, e il conflitto sociale e distributivo che essi hanno il ruolo di istituzionalizzare, sono essenziali per il buon funzionamento di ogni democrazia. 

Per questo, tutti e tutte dovremmo aderire allo sciopero generale il 16 dicembre. Per chiedere che i soldi del PNRR non finiscano, come pare stia invece accadendo, tutti nelle tasche dei privati e a vantaggio delle classi medio/alte che sono molto rappresentate nell'attuale Parlamento (e nella maggioranza che sostiene il Governo) ma sono minoranza nella società.

06/10/21

Il blog compie 10 anni 🎂

Uno spazio che in questi anni ha ospitato un sacco di cose tanto diverse tra loro. Che mi ha visto ventenne incazzato, venticinquenne sognatore e trentenne po’ più realista. Che mi aiutato a coltivare il dubbio ogni volta che mi trovavo a scriverci qualcosa sopra. Che mi permette di tener traccia del percorso, dei fatti, delle cose importanti. Uno spazio libero, che spesso non ho onorato abbastanza ma che è sempre stato lì. A disposizione di me che scrivevo, e di voi che leggevate. Sono contento.

30/09/21

Tre cose su Mimmo Lucano

Il tribunale di Locri ha condannato Mimmo Lucano a 13 anni per favoreggiamento all'immigrazione clandestina. Questa è la notizia del giorno, sconvolgente nella sua violenta abnormità. 

Per capirci, un fascista qualche anno fa è andato in giro per la sua città sparando a dei migranti e di anni ne ha presi 12 (col rito abbreviato). Mentre un ex presidente della regione e il braccio destro dell'uomo politico più importante degli ultimi 30 anni ne hanno presi 14 in due per aver favoreggiato Cosa Nostra. 

Molti insegnamenti possono essere tratti da questa sentenza. 

 Il primo è che il potere, pur di conservarsi, è disposto a stritolare senza pietà chi lo mette in pericolo. A tal proposito è bene ricordare la vicenda del giornalista antimafia Pino Maniaci, che con le sue inchieste si è messo contro degli uomini potenti i quali hanno ovviamente cercato di fargliela pagare con tutti i mezzi a loro disposizione (è pure uscita una serie su Netflix di recente, guardatela).
Il secondo insegnamento, conseguenza del primo, è che le persone perbene possono andare in galera anche ingiustamente. E qui gli esempi, da Gramsci a Mandela, sono davvero troppi per essere elencati in un post. E se da un lato la nostra coscienza grida di dolore per ingiustizie così lampanti, è anche vero che le idee degli uomini giusti sono spesso più forti del cemento armato e del filo spinato con cui sono costruite le prigioni. Le idee degli uomini giusti evadono il confino, sempre, fino a diventare senso comune. E di nuovo questo è la storia ad insegnarcelo. 

Infine, con una nota di sarcasmo, verrebbe da dire che semmai vi venisse in mente di aiutare qualcuno in difficoltà, sia esso un migrante o il vostro vicino di casa, converrebbe non farlo. Piuttosto sparargli contro o fare un voto di fedeltà alla mafia. Ce la si caverebbe con pene inferiori. Potere dell'ingiustizia a norma di legge.

ff

25/08/21


 

Negli ultimi mesi ho notato un aumento significativo di questo tipo di dichiarazioni su giornali e tv: "imprenditore X non trova lavoratori per colpa del reddito di cittadinanza", o ancora "politico Y del partito Z (di destra) dichiara che il reddito di cittadinanza disabitua al lavoro". 
L'obiettivo di articoli come questo è subdolamente politico: far diminuire l'approvazione che il reddito di cittadinanza ha tra la popolazione per poterlo cancellare e/o ridurre senza che la gente scenda in strada coi forconi. E lo fanno cercando pazientemente di convincerci che, citando il re delle granite qui sotto, lavorare 13 ore al giorno per 800€ al mese sia giusto. Che anzi dovremmo ringraziarli per l'opportunità che ci danno. 

E' chiaro che sia in corso un attacco frontale ai lavoratori da parte della classe imprenditoriale più scarsa, meno innovativa e più ignorante del mondo. Una classe imprenditoriale che viene costantemente difesa e rilanciata dai giornali, grandi e piccoli, e da politici che pontificano all'unisono contro la lotta alla povertà dal palco di manifestazioni di cattolici col portafoglio pieno. 

Le occasioni di arricchimento perse durante i vari lockdown li hanno fatti sentire legittimati a fregarsene della dignità dei lavoratori, della loro sicurezza, delle garanzie. E siccome sono potenti e hanno amici nei posti giusti, possono permettersi di frantumarci quotidianamente i cabassisi con verità di comodo, smentite, tra l'altro, da 35 anni di letteratura scientifica. Menomale che dovevamo uscirne migliori...

01/07/21

Trenta

Trenta esce oggi (ed. Nulla Die) dopo una gestazione durata sei anni e proprio per questo ci sono dentro molte cose. Ci sono dentro storie di introspezioni taglienti, luoghi, odori, corpi, contraddizioni. Estratti di vita di un giovane di provincia come tanti. 
Da oggi, queste storie appartengono a chi vorrà leggerle. 

Il libro lo trovate in tutte le principali librerie, sul sito internet di Nulla die e negli store online (ibs, mondadori, amazon ecc.) al prezzo di 11€. Per chi vorrà.



02/05/21

«Se Fedez userà a fini personali il concerto del 1° maggio per fare politica, calpestando il senso della festa dei lavoratori, la Rai dovrà impugnare il contratto e lasciare che i sindacati si sobbarchino l’intero costo dell’evento.» 

Chi pensa che quello di Lega e Fratelli d'Italia non sia fascismo, solo perché del fascismo storico non ne hanno adottato i simboli, rilegga questo comunicato del Carroccio. 
Il fascismo è tutto qui: sfruttare la propria posizione di forza per mettere a tacere - o gettare discredito su - le voci in dissenso. Usare minaccia e ricatto quando i fatti ti schiacciano le spalle al muro. 
E' da 100 anni che è così e non c'è da meravigliarsi. Cambiano gli interpreti, cambiano i simboli e un po' la retorica, ma la solfa è sempre quella. Da sempre cani da guardia del potere costituito, rivoluzionari della conservazione. Finché la misura è colma.

15/03/21

Dalla parte delle persone


Ho ascoltato per intero il discorso che Enrico Letta ha fatto ieri all'assemblea nazionale del PD, condividendo alcuni dei punti da lui sollevati. La necessità di un sistema fiscale più progressivo, l'estensione del diritto di voto ai sedicenni e dei diritti di cittadinanza ai nati sul suolo italiano. E ancora, il dialogo con Conte e i 5 Stelle per il 2023, il bisogno di ridare credibilità ai corpi intermedi. Non ne ho condiviso altri, come l'enfasi su crescita e competitività. Concetti antichi secondo me, eredità di una fase storica ormai chiusa almeno nel comune sentire, nonostante i rigurgiti reazionari degli ultimi mesi ce li stiano riproponendo ancora, sotto le spoglie dei tecnici. 

Ma - al di là di ciò che si possa o no condividere delle parole di un professore mosso dalle migliori intenzioni ma con una storia non certo di sinistra - la mia attenzione è stata catturata dal pulpito che ha ospitato per più di un'ora il suo discorso. Ed in particolare il motto raffigurato accanto al logo del partito del quale è stato appena eletto segretario. "Dalla parte delle persone". Non credo esista frase migliore per rendere manifesta la crisi d'identità in cui versa il PD. Una frase vaga, volutamente, e per quanto mi riguarda priva di significato: non significa dalla parte delle lavoratrici e dei lavoratori (come dovrebbe teoricamente essere il partito erede del fu PCI), non significa dalla parte delle donne, delle minoranze, dei pensionati, dei ricercatori, degli sfruttati. Ma non significa neanche dalla parte degli imprenditori, né del grande capitale, né dei cattolici, né dei borghesi dei Parioli. Non significa niente. 

"Dalla parte delle persone" è un contenitore vuoto che si riempie e si riempirà secondo le necessità contingenti di questa o quella fazione, di questo o quel segretario. Il PD "dalla parte delle persone" non significherà mai niente fin quando non deciderà dalla parte di QUALI persone stare. Quali interessi, generali o particolari che siano, difendere. 

E infatti l'augurio più grande che si possa fare al professor Letta adesso è quello di spiegare e spiegarci una volta per tutte dalla parte di quali persone il PD deciderà di stare. Ne ha bisogno il partito, senza una linea da ormai troppo tempo, ma ne hanno bisogno soprattutto gli elettori. In modo da fugare qualsiasi dubbio da subito e in prospettiva.

26/10/20

Un reddito per tutti fino alla fine della crisi sanitaria. Universalmente garantito e finanziato dalla tassazione generale attraverso imposte altamente progressive su ricchezza e rendite - ed eventualmente anche a debito. Estensione del blocco ai licenziamenti, aiuti per pagare gli affitti e per coprire le spese di prima necessità (gas, luce, ecc.), maggiori controlli per la sicurezza sul posto di lavoro per chi non può lavorare da casa e multe salate per i datori di lavoro che non rispettano gli standard. La pace sociale, che oggi vacilla un DPCM dopo l'altro, si costruisce con la solidarietà, l'universalismo e il controllo sulla discrezionalità dei padroni. Non capire questo significa fare politica "for the few, not for the many". Ancora, ancora e ancora.

31/05/20

Per George Floyd e per tutti gli ultimi del mondo

Vi prego di aprire questa pagina e guardare tutti i video. Rendetevi conto della violenza, dell’abuso di potere, dello squadrismo. Guardate una giovane coppia di afroamericani nella loro auto essere scaraventata a terra e colpita col taser. Guardate un altro giovane afroamericano disarmato essere picchiato selvaggiamente da un poliziotto mentre gli altri lo coprono con le loro armi e i loro scudi. Guardate un anziano indifeso e col bastone essere spinto a terra da un poliziotto in assetto antisommossa. Guardate l’espressione di quell’anziano signore mentre, ancora a terra, viene circondato dai poliziotti.

In questi giorni siamo spettatori di uno spettacolo indecente. Un sistema sull’orlo del collasso che cerca di proteggere se stesso. Che cerca di legittimarsi usando la forza. Un sistema che funziona solo grazie allo sfruttamento e l’abuso sui più deboli. Che annulla i loro diritti, che reprime il dissenso, che mette a tacere le opinioni critiche. Questa è l’America. Questo è il sogno americano con cui ci siamo riempiti la bocca per un secolo. Non le start-up o la Silicon Valley. Non la terra delle opportunità. Questo. La più grande e florida democrazia del mondo accetta, legittima e anzi promuove la violenza delle classi dominanti su quelle subalterne. E’ un fatto incontrovertibile, invisibile solo a chi non ha la voglia di vedere.

Quanto sta accadendo in America dal giorno successivo all’assassinio di George Floyd è la prova definitiva che il capitalismo e le classi dominanti hanno bisogno di questa violenza quotidiana per esistere. Che i feticci della libertà, del mercato, della società globale sono solo narrazioni create per giustificare l’unica vera legge universale: vince il più forte.

Negli ultimi cinquant’anni il nostro sistema economico è entrato in crisi al ritmo di una volta ogni dieci anni. Mietendo ogni volta un numero maggiore di vittime, sacrificate sull’altare della competizione. Il Covid, la bomba sociale che si è abbattuta su questo sistema già in cancrena, renderà evidenti tutte queste contraddizioni. E, forse, discorsi nuovi, più inclusivi e solidali inizieranno ad entrare nel dibattito. Il capitalismo prima o poi morirà, e con lui la sua scia di torti ed abusi, questo è certo. Sta a noi trovare la forza e la fantasia per immaginare un sistema migliore prima che sia troppo tardi.

17/04/20

Filiberto Filetti: Cos'è l'indice R0 e perché è così importante per capire quando potremo sbloccare l'Italia?

L'indice R0 rappresenta il numero medio di infezioni prodotte da ciascun individuo infetto in una popolazione completamente suscettibile cioè mai venuta a contatto con il nuovo patogeno. Questo parametro misura la potenziale trasmissibilità di una malattia infettiva. R0 è influenzato da tre caratteristiche:
  • - La prima è una caratteristica intrinseca di ogni nuovo patogeno cioè la sua virulenza, ovvero quanto è in grado di “attaccarsi” ad un nuovo ospite ad esempio se riesce a diffondersi per via sessuale, o tramite sangue e quanto è efficiente in questa diffusione. Per SARS-COV2 sono sufficienti le goccioline si saliva per diffondersi e dare malattia dunque un solo colpo di tosse è potenzialmente in grado di contagiare decine di persone.
  • - La seconda è relativa alla permanenza del virus nel corpo di un infetto. Se il paziente è contagioso per molti giorni è maggiore la probabilità che infetti più persone. Per SARS-COV2 si resta “infettanti” (passatemi il termine) mediamente per 33 giorni.
  • - La terza caratteristica che influenza R0 è il numero di contatti che ha un infetto. Se un positivo SARS-COV2 lavora come infermiere o lavora in discoteca ha più probabilità di infettare qualcuno rispetto ad un guardiano del faro.
Se R0=1 significa che un contagiato ne contagia soltanto un altro (1X1). L' R0 di SARS-COV2 è stimato tra 1,4 e 3,8 nelle aree più colpite in questa prima fase di diffusione.

La cancelliera tedesca Merkel (con tutti i suoi difetti e la sua poca simpatia), in una conferenza stampa ha ammesso che“Se in Germania ci fosse un R0=1 i posti di terapia intensiva sarebbero prevedibilmente pieni entro il prossimo ottobre. Se il rapporto aumentasse del venti per cento (R=1,2) quei letti sarebbero tutti occupati entro il prossimo luglio. Se il rapporto dovesse aumentare ancora di più (R=1,3), la disponibilità si esaurirebbe invece già a giugno”.
Vi ricordo che la Germania ha 4 volte i nostri posti letto in terapia intensiva. 

Cosa succederebbe dunque se si riaprisse tutto subito, come vorrebbero alcuni governatori o alcuni cittadini? Succederebbe che l'indice R0 schizzerebbe alle stelle e tutto ricomincerebbe come prima e peggio di prima con la gente che muore in corsia per mancanza di respiratori. Se invece il valore di R0 fosse inferiore ad 1 significherebbe che l’epidemia potrebbe essere contenuta.

Quando vi farete i calcoli ricordatevi che la matematica si beffa sempre dei presuntuosi.

Filiberto Filetti

12/04/20

12 aprile: due storie di primavera, buio e rinascita



12 aprile 2008 - 12 aprile 2020. 12 anni esatti. Anni bisestili entrambi e quindi funesti, come credenza vuole. Anni che possono lasciare cicatrici indelebili, e che spesso, per non rischiare di smentire la loro nefasta fama, lo fanno. Guardo il mio viso allo specchio e le vedo. Cicatrici ormai sbiadite dal tempo mi ricordano dolori assopiti. Sono lì per ricordarmi l’aleatorietà, la contingenza, la fortuna. Come la palla da tennis in quel film, “che colpisce il nastro e per un attimo può andare oltre o tornare indietro”. Guardo ancora quelle cicatrici e le paragono alle ferite che vedo oggi sulla pelle di tutti, piaghe ancora aperte per colpa di un virus che ci tiene, da lunghissime settimane, in uno stato d’ibernazione forzata tra quattro mura.

Avevo poco meno di diciassette anni, il 12 aprile di 12 anni fa. Per quanto perennemente inquieto ed allergico alle regole, riguardandomi con gli occhi del me stesso di oggi mi rendo conto di non essere mai stato un adolescente tormentato. Vivevo la mia vita di quel poco che una piccola cittadina dell’entroterra riusciva ad offrire e ne ero tutto sommato felice. Mi bastava. Gli amici, la pallavolo, il calcio, il motorino, gli amori tanto dolorosi quanto brevi, le canzoni, le prime sigarette fumate di nascosto dai miei. Tutto procedeva in un flusso di esperienze del quale non ero assolutamente padrone. Ma non ne ero infastidito, da quella totale assenza di controllo. Un po’ perché la presunzione di un adolescente con un ego ipertrofico mi faceva credere che il controllo delle cose lo avessi io, un po’ perché, alla fine, pur con qualche graffio, dagli inciampi dell’adolescenza ne ero sempre uscito vincitore.
Il 12 aprile sono nati un sacco di miei amici e di mie amiche*. E’ come se i loro genitori avessero deciso di concerto di forzare il ricambio generazionale a Piazza Armerina. Ricordo che il 12 aprile del 2008 ero invitato ad almeno tre feste di compleanno diverse. A quelle feste di compleanno non sono mai potuto andare.

12 aprile 2020. Siamo nel bel mezzo della più grande crisi sanitaria dell’ultimo secolo. Secondo le stime, più di metà della popolazione mondiale – circa 4 miliardi di persone – è confinata tra le proprie mura domestiche. Da più di un mese ci viene ripetuto di restare a casa per limitare il diffondersi di un virus che può causare complicazioni polmonari. Dopo decenni di tagli, i nostri sistemi sanitari non sono attrezzati per far fronte ad una epidemia di massa e se non stessimo a casa rischieremmo di far collassare i nostri ospedali sotto la quantità di persone da curare.
Mentre scrivo sono nella stanza di un appartamento della periferia di Parigi e un sole primaverile rimbalza sulle lenzuola colorate del mio letto, illuminando le mura bianche di rosso e arancio. A Parigi il sole splende quasi ininterrottamente da quando è iniziata questa reclusione forzata. Abituato al grigio plumbeo che caratterizza il cielo di questa città per gran parte dell’anno, mi sorprendo e mi beo dell’eccezionalità della cosa. Tepore, luce e colori riscaldano le mura fredde di un appartamento di tre jeunes adultes che il caso ha voluto trovarsi nello stesso posto allo stesso momento per condividere questa esperienza. I raggi del sole placano almeno in parte la frustrazione del far finta che tutto vada bene, mentre fuori il mondo crolla sotto il peso delle proprie contraddizioni. Per ammazzare il tempo, e per sana solidarietà, ci siamo riscoperti psicologi, ci siamo riscoperti motivatori, esperti di yoga, cuochi. Abbiamo passato ore in videochiamata con gli amici di una vita, tutti sparsi come siamo ai quattro capi d’Europa, per mutualizzare il confino, per farci compagnia. Abbiamo riscoperto il piacere dei dieci minuti di cammino che separano casa nostra dal supermercato più vicino. Scendere in cortile per buttare l’immondizia o andare al tabacchi per comprare le sigarette ci sembrano ormai gesti eccitanti perché proibiti. In mezzo, persone distanti almeno un metro, mascherine chirurgiche, guanti monouso. Le strade vuote e profondo silenzio. Questa visione mi ricorda tanto le domeniche mattina di agosto nelle grandi città. Giorni tranquilli ed assopiti, in attesa del ritorno del caos e della frenesia.

12 aprile del 2008. Per me, una data che traccia una linea profonda sul terreno tra il “prima” e il “dopo” quel giorno. Una sorta di bivio. Sono passati 12 anni. E oggi come allora febbraio aveva un giorno in più. Cado (probabilmente) da un primo piano di un palazzo abbandonato in uno dei boschi che circondano la città in cui sono nato e cresciuto. I miei amici mi ritrovano a terra, stordito, pieno di sangue. Cosa sia successo non lo so, un trauma cranico mi ha asportato – selettivamente e d’imperio – la memoria. Il primo ricordo che ho risale a 24 ore dopo il fatto, ero in una camera d’ospedale. C’erano i miei, mio fratello, la sua compagna. Me li sono ritrovati tutti attorno al mio capezzale. Le loro espressioni appena dopo essermi svegliato resteranno per sempre scolpite nella mia memoria. Ricordo anche la prima frase che pronunciai: “non tutti i mali vengono per nuocere”. Lo dissi a mia madre. Il motivo per cui pronunciai quella frase lo custodisco gelosamente, e, come me, spero anche le persone presenti in quel momento. A causa dell’incoscienza del me stesso adolescente fui costretto a passare tre settimane in ospedale ed altre due a casa, dopo essere stato dimesso.

Mi sono trovato, come ogni anno nei giorni precedenti al 12 aprile, a ricordare quelle settimane di stasi passate tra le mura dell’ospedale e di casa. Penso agli alberi che guardavo fuori dalla finestra e ricordo di come fossero spogli al mio arrivo in ospedale, e di come invece il verde delle loro foglie splendesse rigoglioso quando sono stato dimesso. Ricordo l’odore di fiori e pollini che mi investiva quando aprivo la finestra per far cambiare l’aria.
Sono sempre strani, per me, i giorni che precedono il 12 aprile. Divento più taciturno, più cupo, pensieroso. Ripercorro nella mia testa i passi che mi hanno portato a quel bivio, la strada dissestata che separa la statale e l’edificio in quel bosco di pini ed eucalipti. Ci sono tornato solo una volta dopo quel giorno, ma la strada la ricordo così bene che è come se fosse la strada di casa mia.

Pensare a quel periodo alla luce del confinamento che stiamo vivendo oggi è il motivo per cui ho iniziato a scrivere questa ‘cosa’. In queste settimane mi sono ritrovato spesso affacciato alla finestra di casa mia, e come allora ho assistito all’arrivo della primavera da dietro un vetro. Ho visto le giornate allungarsi, gli alberi riempirsi di foglie, ho sentito l’odore dei fiori inondare le stanze dell’appartamento. Sono stato spettatore dell’alternarsi delle stagioni. E mentre il mio cervello veniva bombardato dalle notizie sulla tragedia sanitaria che stiamo vivendo, mentre il mio cellulare esplodeva di notifiche e chiamate di familiari e amici, pensavo a quanto simili siano questo periodo e quello di 12 anni fa. Anni bisesti entrambi, in cui sono ritrovato imprigionato tra quattro mura. Pensavo a quanto curiosa sia questa coincidenza. 12 anni, 12 aprile. Un evento drammatico che prima riguardava solo me e la mia intimità, adesso riguarda tutti. Uscire, sorridere, abbracciarsi. Ricercare atavicamente il contatto fisico delle persone a noi vicine. Bisogni essenziali, che in tempi normali ci appaiono così naturali da farli essere quasi scontati. Quella prigionia, così come questa, mi ricorda (e ci ricorda) quanto niente di questo bisogno ancestrale sia meritorio di relativizzazione. Mi ricorda, e ci ricorda, l’essenza dell’essere umano in quanto animale sociale, che forma la propria individualità e coscienza grazie al continuo rapporto con l’altro.

Il 12 aprile è per me una di quelle date che hanno scavato una linea profonda sul terreno. Il 12 aprile di 12 anni fa per me ha significato caduta, sofferenza, disagio. Ma anche, e soprattutto, rinascita. Alla fine di quel periodo, quell’adolescente inquieto ed allergico alle regole era diventato un po’ più cosciente di sé. Cosciente dell’aleatorietà, della contingenza, della fortuna. La palla da tennis aveva toccato il nastro ed era andata oltre. E io sapevo che sarebbe potuta restare nel mio, di campo. Lo sapevo e ne ero grato. Guardo di nuovo a quel 12 aprile di 12 anni fa, e lo paragono a questo 12 aprile. E’ Pasqua e siamo tutti forzati a stare a casa, lontani dai nostri amici più cari, lontani dalle nostre famiglie. Siamo isole che aspettano di ricongiungersi alla terraferma senza sapere quando questo avverrà. Esattamente come lo ero io 12 anni fa. E finendo di scrivere queste righe mi sono reso conto di quanto sia la primavera che la Pasqua siano entrambe metafore di rinascita. Laico e confessionale che si fondono in questo 12 aprile di sofferenza e disagio. Che anticipano ineluttabilmente il ritorno alla vita sia del mondo vegetale, con le foglie verdi e l’odore dei fiori, che di quella umana, con la presa di coscienza di ciò che sarà stato questo periodo quando passerà e la volontà di ricostruire i legami, l’empatia e la fiducia nel prossimo che un virus ha rischiato di recidere definitivamente. Laico e confessionale che si fondono per manifestare, tanto ad un adolescente nella sua irrilevante esistenza, quanto ad una parte consistente della popolazione mondiale forzata a casa 12 anni dopo, che al buio segue sempre un risveglio.
Che questa banale consapevolezza possa essere utile ad esorcizzare il prosieguo di una quarantena vissuta da isole, nell’attesa che lo stesso tepore che ha cullato alberi e fiori ci riscaldi quando anche noi potremo di nuovo stringerci senza paura.

Federico Filetti


*Colgo l'occasione per fare a tutti e a tutte i miei più sinceri auguri di buon compleanno.

31/01/20

Il problema non è il coronavirus che ci contagiano i turisti cinesi o la scabbia che rischiamo di prendere grazie a quei morti di fame che vengono dall'Africa. La verità è tutto ciò che è diverso da noi stessi ci sta immensamente sul cazzo. La verità è che, dell'altro, abbiamo essenzialmente paura. Ci infastidisce, ci irrita. L'io e l'altro sono due unità non solo inconciliabili ma anche respingenti. Io non sono il cinese malato. Io non sono il nero morto di fame. Io non sono il posto in cui abito, le persone che mi circondano, il vicino di casa che sento scopare alle due di notte, il collega invidioso, il clochard che mi chiede l'elemosina fuori dalla chiesa. Io sono io. Disgiunto e slegato da tutto il resto.

E grazie al coronavirus adesso abbiamo una scusa in più per mentire a noi stessi e continuare a raccontarci la favola del lupo cattivo che viene da fuori privandoci della nostra pace esistenziale. Abbiamo un'occasione ghiotta per rinforzare in noi stessi l'idea che "vedi? te l'avevo detto che sti stranieri portano solo guai!". Perché poi alla fine è solo una questione di quanto riesci ad essere onesto con te stesso guardandoti allo specchio. E ci vuole grande onestà intellettuale ad ammettere a se stessi, la mattina lavandosi i denti, che forse ci siamo tutti incattiviti. Che siamo arrabbiati, insofferenti, frustrati. Che siamo soli. Atomizzati, e in quanto atomi siamo instabili, pronti ad esplodere liberando istantaneamente megatoni di energia negativa in un fungo di incandescente disumanità.

Io non lo vedo bene sto futuro. Sta narrazione positivista, sto feticcio del progresso sociale ed umano mi sembrano tutte delle gran cazzate. Mi sembra che la cattiveria che vedo attorno a me ogni giorno, dalla quale cerco con tutte le mie forze di immunizzarmi e che colpisce indistintamente tutti gli strati della popolazione, sia qualcosa di antico. Una condizione che contraddistingue l'essere umano sin dall'alba della Storia. Innata, genetica. Che quindi la strada è già tracciata, che siamo diretti verso un muro come lo siamo stati un'infinità di volte sin da quando abbiamo messo piede su questo pianeta.

Rileggo le parole che ho scritto e mi rendo conto di quanto determinismo trasudino. Insopportabili. E allora penso che forse cambiare binari alla Storia è possibile. Che bisogna solo rimboccarsi le maniche, iniziare a muoversi, che non è tutto perduto, che alla fine anche esseri imperfetti come noi possono imparare dagli errori propri e degli altri. Non lo so. Vorrei che fosse possibile, vorrei credere nelle potenzialità salvifiche dello stare tutti assieme in pace. E, soprattutto, vorrei non farla essere una verità di comodo che mi costruisco la mattina lavandomi i denti, solo per salvarmi dal pessimismo cosmico che sento soffiarmi dietro l'orecchio.
Vorrei degli esempi positivi, persone alle quali ispirarmi. Ma quelli ci sono, e c'è solo da rimboccarsi le maniche.
"Il pessimismo dell'intelligenza, l'ottimismo della volontà".

09/07/19

Il capitalismo non è (più) sostenibile



Questione ambientale, migrazioni, disuguaglianze, intolleranza: il sistema economico e produttivo che abbiamo costruito è denominatore comune a tutti i più grandi problemi del nostro tempo. E noi, come i pesci del famoso racconto di David Foster Wallace, ne siamo così assuefatti da non riuscire a rendercene conto.

La cronaca politica degli ultimi mesi ha visto la giovane Greta Thunberg ergersi a leader mondiale nel dibattito sulla tutela dell’ambiente. Dibattito che grazie al carisma della ragazza, ai continui allarmi delle organizzazioni internazionali sui rischi dell’inquinamento e agli studi che provano la responsabilità dell’uomo nel processo di surriscaldamento globale è tornato in auge riuscendo a far guadagnare molti voti alle forze politiche ambientaliste nelle elezioni Europee dello scorso maggio. Anche le forze tradizionali hanno iniziato ad adattarsi a questa nuova tendenza, senza tuttavia fornire soluzioni radicali. Infatti, uno dei grandi limiti dell’azione politica in tema di tutela ambientale fino ad adesso è stato quello di pensare che attraverso gli incentivi pubblici le aziende si convincano ad investire con più decisione nell’innovazione “green”. Ciò che non si considera è che questo particolare processo innovativo debba essere gestito dal pubblico sia per ragioni etiche (l’ambiente è un bene pubblico, e pubblica deve essere la sua tutela) che per ragioni economiche: gli investimenti in ricerca e sviluppo in tema ambientale hanno costi altissimi e ritorni bassi e poco certi, mentre le aziende puntano massimizzare il profitto nel breve termine rendendo il processo di innovazione lento ed inefficace.

In un grande intreccio di ragioni politiche, economiche ed ambientali, centinaia di milioni di persone sono in movimento dal sud verso il nord del mondo. Lo sfruttamento dei loro territori ad opera delle grandi multinazionali d’occidente in accordo con i vari gruppi militari e politici locali sono causa, quando non di conflitti armati perenni, di povertà, schiavitù e malattie. Le siccità e le piogge anomale che stanno colpendo quelle parti del pianeta a causa del cambiamento climatico peggiorano un quadro già di per sé devastante. In questo contesto, parlare, come fanno molti politici, di “aiutarli a casa loro” implicherebbe vietare alle nostre aziende tecnologiche di rifornirsi a prezzi da discount delle materie prime con le quali costruiscono il loro vantaggio competitivo, o impedire all’industria bellica di commerciare sotto l’egida delle istituzioni nazionali con i paesi “a rischio”. Contemporaneamente, sarebbe necessario incrementare la spesa pubblica in cooperazione internazionale, che invece risulta essere in caduta libera. Siamo disposti a invertire la rotta in maniera così radicale? La risposta è chiaramente no.

Nella parte più fortunata del mondo, dieci anni di crisi economica e trent’anni di tagli bipartisan alle politiche di welfare stanno mettendo a dura prova la coesione sociale in tutto il Vecchio Continente. Un quarantennio di bombardamento retorico liberale ci ha convinti che la priorità della politica debba essere quella di abbassare le tasse, perché pagare meno tasse vuol dire avere più soldi in tasca. Ciò che non ci è stato spiegato (e che, nonostante l’evidente paradosso, continua a non essere spiegato a sufficienza) è che abbassare le tasse vuol dire avere meno denari per finanziare i servizi, che quindi dovranno essere erogati dai privati con tariffe insostenibili per la maggior parte della popolazione. Inoltre, in un mondo in cui viene garantita la libera circolazione dei capitali, la competizione tra le aziende si gioca, oltre che sul livello di tassazione, sul costo del lavoro. E’ così che è stato giustificato l’attacco scientifico ai diritti dei lavoratori negli ultimi quarant’anni. La precarizzazione del lavoro, soprattutto per giovani e donne, riduce i costi delle aziende ma aumenta l’instabilità di chi pur lavorando non ha i soldi per poter vivere decentemente. Il calo delle nascite, l’aumento delle psicopatologie legate all'insicurezza lavorativa e l’etnicizzazione delle rivendicazioni sociali sono solo alcuni dei molti effetti perversi di questo sistema.

Settant’anni fa, Karl Polanyi, economista e sociologo ungherese, nel suo libro “La Grande Trasformazione – Le origini economiche e politiche della nostra epoca” ha magistralmente spiegato che le tensioni create dal sistema economico liberale possono avere effetti politici devastanti. Secondo lui, al movimento di liberalizzazione e “laissez-faire” occorso dopo la seconda rivoluzione industriale corrispondeva un contro-movimento, una richiesta di protezione dalle distorsioni create dal primo. Era così che lui spiegava la nascita dei fascismi in Europa. Guardare al presente attraverso la lente di Polanyi è un esercizio utile ad interpretare molti dei fenomeni ai quali stiamo assistendo, a tracciarne analogie e differenze rispetto al passato e, in definitiva, ad evitare di commettere ciclicamente gli stessi errori.

Alla luce della teoria polanyiana, dei problemi ambientali e dei flussi migratori, della precarizzazione della vita privata e della distruzione della sfera pubblica, ciò che appare chiaro è che il capitalismo non sia più un sistema sostenibile. O meglio: è chiaro che il capitalismo non sia mai stato un sistema sostenibile. E’ stato un sistema tollerato e tollerabile, certo, che ha creato tantissima ricchezza, ma che l’ha tuttavia polarizzata nelle mani di pochi e a costi collettivi altissimi. Per questi motivi sta progressivamente perdendo la propria funzione storica, anche se per adesso è difficile scorgere un’alternativa sistemica migliore.
La reazione a questo stato delle cose non può e non deve avere, di nuovo, nel fascismo il più naturale degli sbocchi politici. E’ bene ricordare che peculiarità del fascismo, sia storico che odierno, è la retorica con il popolo e per il popolo contro il nemico più facile da abbattere (i migranti, le ONG, gli avversari politici, le donne), mentre l’azione politica è a vantaggio unico del grande capitale e a scapito dei lavoratori (in cui la repressione sindacale e moderazione salariale del fascismo storico e la proposta di flat-tax di quello moderno sono i casi più esplicativi). Dunque, per quanto forze dichiaratamente anti-sistema, nei fatti né il fascismo storico né quello moderno si sono mai posti in antitesi rispetto al sistema economico egemone.

Evitare che il capitalismo e l’architettura politica che lo sostiene e lo legittima vengano superati dialetticamente attraverso un conflitto sanguinoso e devastante è oggi il nostro più grande imperativo morale. Per farlo è necessario ripartire dalla riapproprazione degli spazi collettivi, dal mutualismo, dal localismo e dalle buone prassi. E’ necessario creare una narrazione condivisa dei benefici dello stare tutti assieme pacificamente, ed è necessario che questa narrazione, penetrando in tutti gli strati della società attraverso esempi pratici e messaggi semplici da recepire, diventi senso comune.
Ci vorrà tempo prima che questa notte della ragione passi. E ci vorrà uno sforzo collettivo sovrumano per resistere a questo rigurgito reazionario che ha ormai sedotto molti di noi. Ma rendersi conto, come i pesci del racconto di Foster Wallace, che "questa è l'acqua", è già un buon punto dal quale partire.

Federico Filetti


23/06/19

Baudelaire - Spleen

LXXVI
Ho più ricordi che se avessi mille anni.
Un grosso mobile a cassetti ingombro di bilanci, di versi, di biglietti amorosi, di processi, di romanze, con pesanti ciocche di capelli involte nelle quitanze, nasconde meno segreti del mio triste cervello. E' una piramide, un immenso sepolcro che contiene più morti che la fossa comune.
- Io sono un cimitero aborrito da la luna, dove come rimorsi si trascinano lunghi vermi che s'avventano sempre su' miei morti più cari.
Io sono un vecchio gabinetto pieno di rose appassite, dove giace tutto un guazzabuglio di mode disusate, dove i pastelli malinconici e le pallide figure di Boucher, soli respirano l'odore d'una fiala sturata.
Nulla uguaglia in lunghezzza le tarde giornate, quando sotto le pesanti falde de le nevose annate la Noia, frutto de la triste incuriosità, assume le proporzioni de l'immortalità.
- Ormai tu non sei più o materia vivente! che un granito circondato da un vago terrore, assopito nel fondo d'un Sahara nebbioso! una vecchia sfinge ignorata dal mondo spensierato, dimenticata su le carte il cui umore selvaggio non canta che ai raggi del sole che tramonta.

LLXXVII
Io sono come il re d'un paese piovoso, ricco ma impotente, giovane e pur molto vecchio, che, disprezzando li inchini ossequiosi de' precettori si annoia co' suoi cani come un qualunque altro animale.
Nulla lo può rallegrare, nè falcone nè selvaggina, e nemmeno il suo popolo morente davanti al balcone.
La grottesca ballata del buffone favorito non distrare più la fronte di qul crudele malato; il suo letto di fiordalisi si trasforma in una tomba, e le dame del seguito, per le quali ogni principe è bello, non sanno più trovare impudiche acconciature per strappare un sorriso a quel giovane scheletro.
Lo scienziato che gli produce l'oro non ha mai potuto sdradicare dal suo essere l'elemento corrotto, ed in quei bagni di sangue che ci vengono dai Romani e di cui i potenti si ricordano nei loro più tardi giorni, non ha saputo riscaldare quel cadavere idebetito nel quale invece di sangue scorre l'acqua verde del Lete.

28/02/19

Perché Volt non riesce a convincermi



Le elezioni europee del maggio 2019 sono alle porte e con ogni probabilità segneranno uno sconvolgimento dell’assetto politico del Vecchio Continente. I due partiti tradizionali, il PPE e il PSE, sono in calo di consensi ormai da anni in tutta Europa, così come le formazioni nazionali che li compongono. Le politiche liberali di cui entrambi si sono fatti portatori si sono scontrate con gli effetti di lungo periodo della crisi, gonfiando le vele ai populismi. E’ proprio sui risultati dei partiti populisti che si giocherà la sfida fondamentale per il futuro dell’Unione. Se la destra populista riuscirà a raggiungere percentuali paragonabili a quelle nazionali, sposteranno verso destra l’asse del PPE, rischiando di far implodere il progetto di unità europea in virtù della loro spinta disgregante. Allo stesso tempo, il PSE sembra voler proseguire nella sua strategia centrista, cancellando a monte qualsiasi tentativo di dialogo con le formazioni della sinistra radicale (come succede già adesso in Italia), e continuando a perdere il consenso delle classi popolari.
In questo scenario, alcune nuove formazioni politiche sostenute da larga parte dell’opinione pubblica di area progressista spingono affinché l’azione politica europea possa diventare più uniforme e centralizzata rispetto a quanto non lo sia adesso.
Incuriosito dall’attenzione che i media hanno rivolto a questo neonato movimento, colpito dalla sua sorprendente capacità organizzativa, dalla efficace ars oratoria dei propri leader e dall’affinità generazionale che mi lega ai suoi creatori ho iniziato a documentarmi. Ho letto la carta programmatica (che si chiama Dichiarazione di Amsterdam), ho ascoltato le interviste, ho letto articoli e ad ogni tassello che aggiungevo, venivo investito da una serie di dubbi che mi sembrava minassero la credibilità del progetto politico. Dubbi che riguardano innanzi tutto la piattaforma programmatica, ovvero gli obiettivi politici che si pone il movimento e di come questi obiettivi debbano essere tradotti in azioni, e poi la retorica attraverso cui questo insieme di intenti e di proposte viene comunicato al potenziale elettore.

E’ un movimento che si pone in antitesi rispetto ai populismi ma si dichiara né di destra né di sinistra, esattamente come molti dei partiti populisti in giro per l’Europa. Come i partiti populisti, rivendicano, a testimonianza della loro purezza, l’inesperienza politica e non si identificano nella dicotomia storica tra destra e sinistra. Una retorica, questa, che è nata in Italia con il Movimento 5 Stelle e che è stata mutuata da En Marche! nella campagna elettorale che ha portato Emmanuel Marcon all’Eliseo. Una contraddizione che, come abbiamo visto, non può risolversi in campagna elettorale e che si risolverà nel momento in cui gli eletti dovranno prendere delle decisioni politiche. La storia recente ci insegna molto a riguardo. In Italia, il Movimento 5 Stelle dall’alto della sua purezza e della sua retorica post-ideologica è finita ad attuare politiche di destra sociale (ossia quelle volte a proteggere i lavoratori, possibilmente italiani, bianchi e uomini, a scapito delle minoranze), mentre, in Francia, Macron implementa politiche liberiste e taglia indiscriminatamente lo stato sociale, costringendo i Gilet Gialli ad occupare le strade di Parigi e della Francia per più di tre mesi. A vantaggio unico di Lega e Front National: la destra vera, quella nostalgica e reazionaria.
Alla retorica populista, Volt affianca una visione contraddittoria del futuro dell’Europa. Insieme ad una (giusta, a mio avviso) attenzione ai diritti civili, alla sostenibilità ambientale, all’attenzione verso le minoranze ci sono forti ambiguità legate ai modi in cui questi obiettivi debbano essere perseguiti: in altre parole, il ruolo che lo Stato deve avere nel gestire il ciclo economico. Se da un lato leggiamo che “lo Stato deve farsi portatore di un sistema di solidarietà per i soggetti più vulnerabili”, dall’altro leggiamo che “il suo intervento deve essere il più piccolo e più veloce possibile” e che “lo Stato non può e non deve pianificare o prevedere l’innovazione”. Compito che è delegato al mercato, che, in quanto “libero e aperto, crea le più grandi possibilità di arricchimento per tutti”.
L’assenza pressoché totale di critica al paradigma liberale diventa lampante quando al congresso nazionale di Volt Italia viene invitato Carlo Calenda, un politico che non ha vergogna nel dichiarare che il liberismo è di sinistra, o quando uno dei leader del movimento dichiara che “il liberalismo forse si è un po’ incagliato su una visione economicistica e deterministica degli individui”. Forse. Un po’.
La stessa visione economicistica e deterministica che lo ha portato a dichiarare, due righe più giù, che la soluzione è “il taglio immediato e significativo del cuneo fiscale per dare ossigeno a tutti quei milioni di giovani che ad oggi arrivano a fine mese solo grazie agli aiuti di nonni e genitori”. Fare un’esegesi dell’ideologia dominante per criticare l’ideologia dominante. Un capolavoro retorico.

E’ comunque doveroso sottolineare che molti dei punti programmatici di Volt non sono solo condivisibili, ma anzi di necessaria attuazione. Ho trovato molto interessante, ad esempio, la proposta di espandere il mandato della Banca Centrale Europea non solo al controllo dell’inflazione ma anche a quello del livello di occupazione, come succede anche con la FED negli Stati Uniti.  Così come sono condivisibili le proposte di centralizzazione a livello europeo di parte della spesa pubblica, dell’unione bancaria, dell’istituzione di una tassa europea sulle imprese e del ministero delle finanze che rappresenti tutta l’Unione. In generale, mi sembra che molti dei punti programmatici volti a federare gli Stati guardino nella giusta direzione.
Tuttavia, il programma presenta molte profonde mancanze e altrettante ambiguità di difficile risoluzione.
Ritengo scandaloso che nella piattaforma programmatica e nella sua appendice non vengano neanche citate le parole “debito pubblico” o “debito pubblico europeo”: non si fa riferimento ai vincoli di Maastricht su debito e pil, i cui effetti perversi sono responsabili della macelleria sociale nella quale ci troviamo oggi, e non si accenna neanche a proposte su un “debito pubblico europeo”, uno dei pochi meccanismi che possa realmente aumentare la solidarietà tra gli Stati Membri. Sarebbe grave se si trattasse di una semplice dimenticanza, visto che stiamo parlando di una forza politica che sta comunque chiedendo il voto a centinaia di milioni di persone, ma sarebbe ancor più grave se questa mancanza nascondesse la paura di prendere una posizione chiara a riguardo.
Un’altra grave mancanza programmatica è quella di un salario minimo europeo, che si porrebbe come risposta alle pressioni a ribasso sui salari date dalla presenza di una nutrita manodopera di riserva: l’istituzione di un salario minimo ridurrebbe i fenomeni di dumping nella parte inferiore della piramide sociale, sia per i cittadini europei che per le minoranze etniche disposte ad accettare stipendi da fame pur di lavorare.
Quanto alle ambiguità programmatiche, ciò che per Volt sembra non essere chiaro è che competitività e protezione sociale siano due fattori mutualmente esclusivi.
Non è chiaro come le proposte di aumento della protezione sociale dei lavoratori atipici (tra i quali, ad esempio, i riders) possano essere conciliate con il fatto che il vantaggio competitivo di aziende come Foodora o Deliveroo sia basato sullo sfruttamento della manodopera in cambio di zero garanzie e stipendi da fame. Aumentare la protezione sociale di queste categorie implicherebbe un maggior costo del lavoro per queste aziende, che come conseguenza della libera circolazione dei capitali scapperebbero subito verso altri lidi.
Così come non è chiaro come l’appoggio incondizionato al libero mercato possa conciliarsi con le proposte di aumento delle protezioni per gli agricoltori locali, che dai trattati di libero scambio firmati in Europa sono stati danneggiati.

Volt, così come En Marche! (al quale Volt mi sembra si ispiri), mirano a guadagnare voti smarcandosi dalla dicotomia destra/sinistra e ponendosi in alternativa ai populismi.
Tuttavia, ciò che appare chiaro è che le contraddizioni insite nella retorica e nel programma attraverso cui Volt si sta presentando all’elettorato europeo risentono da un lato dell’ormai quarantennale egemonia culturale del liberismo, dall’altro delle spinte protezionistiche che i populismi sostengono da quando il paradigma liberale ha iniziato a mostrare le sue falle. Così facendo, questo movimento ha assimilato, introiettandoli, i principali difetti delle due visioni.
Inoltre, i presupposti teorici su cui Volt si fonda mi sembrano deboli: essi semplificano la realtà fino ad invertire i rapporti di causa ed effetto. Nella loro analisi, infatti, Brexit e i populismi vengono presi solo come variabile indipendente del sistema, come la causa che rischia di influenzare un processo. Invece, i populismi sono il risultato dell’interazione tra il sistema economico egemone, quello liberista che è intrinsecamente portato a polarizzare la ricchezza, e il sistema politico, quello della democrazia liberale, in cui i meccanismi di rappresentanza si sono rivelati incapaci di gestire le tensioni sociali create dal sistema economico.
Il tentativo che Volt sta compiendo di dare un volto umano al capitalismo e al libero mercato non è innovativo: furono Tony Blair e Bill Clinton i primi a provarci più di vent’anni fa, seguiti a ruota da moltissimi emuli in tutto il mondo Occidentale, e dalle loro politiche ne è emersa la crisi più grande della storia del capitalismo. Ignorare la necessità di uno Stato (o di un insieme di Stati) che non solo regoli ma che intervenga massicciamente per garantire uguaglianza e solidarietà, ignorare che il trade-off che esiste tra welfare universale e libertà di movimento dei capitali debba risolversi necessariamente in favore del primo, ignorare che il conflitto tra capitale e lavoro è oggi forte come e forse più di quanto non lo sia stato durante tutto il ‘900, vuol dire porsi in una posizione antistorica. Vuol dire o non avere idea del qui e dell’ora, oppure vuol dire prendere ufficialmente atto di rappresentare una piccola e privilegiata parte della popolazione europea.
Verrà un momento in cui questi futuri giovani deputati europei verranno chiamati a decidere se stare dalla parte di chi con la globalizzazione ci ha guadagnato, o se stare dalla parte di chi ha perso. A quel punto vedremo di che pasta sono fatti.

Federico Filetti
© Federico Filetti
Maira Gall